I limoni d’inverno
È un film in cerca di poesia, I limoni d’inverno di Caterina Carone, presentato alla XVIII Festa del cinema di Roma, nella sezione Grand Public. La cerca, la sfiora, la guadagna per alcuni tratti, unendo letteratura, natura, arte e sentimenti. Concentrandosi soprattutto su questi ultimi, più sussurrati che urlati, a parte una sequenza a pochi passi dal finale. Vissuti prima con gli sguardi che col corpo, con un desiderio timido e nobile, prima che con l’azione.
Sono le emozioni di un uomo avanti con gli anni, Pietro, un bravissimo Christian De Sica, e di una donna, Eleonora, molto brava anche Teresa Saponangelo, ancora giovane ma immalinconita dalla vita, fiaccata da una storia d’amore ormai piena di buche: una relazione contaminata dall’idolatria, dalla smania di autoaffermazione, dall’insoddisfazione e da esigenze di ritmo diverse. Hanno entrambi una ferita addosso, i due protagonisti di I limoni d’inverno, profonda e dolorosa. Chi antica chi nuova, chi alle spalle, sanguinante, chi di fronte, inquietante. La condividono insieme alla sorte che li ha portati a vivere su due terrazze di fronte, nel cuore di una Roma reale e affabulata insieme. A volte nascosta e spesso bellissima, oppure le due cose insieme, come nella sequenza nel bosco di bambù all’orto botanico. Una città intima come tutto il film vuole essere, in fondo, nel quale un anziano professore di liceo, con virtù da scrittore, ormai solo da tempo, scambia un amore delicato, carezzevole, appunto poetico, con una donna dal sorriso trattenuto, ferma in un rapporto improduttivo, mestamente incanalato nell’organizzazione degli incontri di lavoro di un compagno fotografo, troppo impegnato a conquistare se stesso per offrire spazio vero, tempo autentico all’altra.
Per questo le due solitudini iniziano a respirarsi con piacere crescente, a trovare nutrimento su quella specie di doppio confessionale all’aperto, su quelle due oasi che somigliano alla vita. Faccenda che può anche essere elegante, curata, emozionante, confortevole, e tante altre cose belle, ma rimane “un campo di battaglia”, dice il professore citando Tolstoj: scrittore dominante nel film in mezzo a Conrad e Kafka.
Si incontrano tra le rispettive piante da curare, Pietro ed Eleonora, metafora delle loro anime fragili ma belle, tenere come tutto il film vuole essere: agrodolce ma mai cupo, imperfetto nella scrittura e nella regia, ma vitale in entrambi gli aspetti. Un film sulla felicità, ed ecco di nuovo Tolstoj, citato nel passaggio di Guerra e pace che fa: «Se vuoi essere felice, devi credere nella possibilità di esserlo». È dunque un film luminoso, l’opera seconda della regista marchigiana, speranzoso nonostante affronti il tema della frustrazione femminile in una società complessa e sorda, e ancora di più quello della malattia, di cui non diciamo altro per non esagerare nello spoiler.
È un film gentile, I limoni d’inverno, con un carattere d’altri tempi, ed è questa identità (pro)positiva, che lo rende forte abbastanza da non inciampare irrimediabilmente nelle discontinuità e nelle ridondanze di sceneggiatura e visive. Perché quello che conta nelle persone è il cuore, l’anima, non gli errori nel cammino. Può valere anche per i film, e vale per I limoni d’inverno, che – in sala dal prossimo 30 novembre – racconta con andatura non impeccabile ma mai sgraziata, nel complesso coinvolgente, il mondo eterno dell’incontro amoroso tra esseri umani. Oltre ad offrirci un Christian De Sica “nuovo” e meraviglioso nell’impasto di misura e intensità.