Kripton, viaggio tra patologia e umanità
Francesco Munzi è noto principalmente come regista di finzione: i suoi film – su tutti Anime nere, del 2014, ma anche l’ormai lontano Saimir, film d’esordio del 2004 -, sono forti nei contenuti ed efficaci nella forma: ‘ndrangheta, immigrazione, marginalità, sono i temi toccati dall’autore con intelligenza e sensibilità.
Il suo ultimo film, però, presentato alla XVIII Festa del cinema di Roma (sezione Special Screenings), intitolato Kripton, è un documentario, ovvero quella via espressiva senza attori (ma con storie vere filmate) che Munzi (a ben guardare) aveva già percorso – oltrechè in età giovanile – ripetutamente negli ultimi anni: prima con Assalto al cielo, sugli anni di contestazione dal 1967 al 1976, poi con Futura, un lavoro a sei mani condiviso con Pietro Marcello ed Alice Rohrwacher, nel 2021.
Era un viaggio post pandemia nell’idea di futuro dei giovani italiani di oggi, tra speranza e timore, tra fragilità e desiderio. Ora, sulla scorta di queste due esperienze, il regista ha deciso di osservare e di ascoltare sei ragazzi con profondo disagio mentale all’interno di due comunità terapeutiche gestite dall’Asl Rm1.
Siamo nella periferia della capitale e oltre ai ragazzi ci sono i loro familiari e i medici che li seguono. Munzi è rimasto a lungo in relazione con questa difficile realtà: diversi mesi aspettando che il filtro del cinema si abbassasse fino a scomparire, e che ci fosse più naturalezza e verità possibile nel suo racconto/viaggio dentro un tema così delicato e doloroso. Dimitri, Giorgiana, Marco Antonio e Silvia, sono alcune delle storie raccontate in Kripton, che è anche il pianeta di Superman citato da uno dei ragazzi, Marco Antonio, e viene utilizzato da Munzi come metafora per provare, con tatto e attenzione, a descrivere questa condizione di estrema fatica, ma anche di sospensione, in fondo, in qualche modo: una terra di mezzo, o una doppia terra, due mondi entrambi abitati.
Uno proprio, drammaticamente personale, intimo in modo struggente, vissuto nella solitudine, l’altro comune a tutti gli esseri umani, fatto di regole, di richiesta normalità, di pressione e aspettative. Ripetutamente, il documentario, oltre a porsi in un ascolto tanto attento quanto discreto degli stati d’animo dei protagonisti e dei loro genitori, esorta a entrare in questo spazio di confine tra patologia e persona.
Ci pone una sottile domanda di fondo, durante la narrazione, provocando un pensiero che riaffiora qua e lá nel racconto: quanto conta l’ambiente, il vissuto sociale e familiare dentro lo sviluppo di una patologia mentale? Lungi dal voler dare risposte, così come dal voler sviluppare una tesi, né di rendere questo il tema principale del racconto, il regista pone una lunga didascalia sul nero prima dei titoli di coda, che accenna all’aumento dell’uso di farmaci specialmente dopo la pandemia e specialmente tra i giovani.
Numeri cupi, dolorosi, soprattutto se associati a quelli assai diversi degli investimenti nella sanità pubblica, e sappiamo quanto l’intervento precoce e un’assistenza continua e approndita possano fare la differenza nella cura della patologia mentale. Francesco Munzi riesce a farci entrare in empatia con la sofferenza narrata, ce la fa sentire vicina, reale, complessa nel giusto modo. Entra con un silenzio fertile in una ferita che riguarda tutti e sulla quale tutti dobbiamo vigilare e lavorare insieme nel rapporto con il tempo che avanza. Kripton è un film impegnativo, forte, ma mai vuoto di significato e vederlo fa bene.
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