Il mondo visto da Islamabad

Un viaggio di 20 giorni in Pakistan, un sogno che si è realizzato e che mi ha aperto orizzonti inaspettati. Una riflessione alla luce dei fatti vissuti e di quanto di oscuro e buio sta accadendo nel mondo. Cosa significa vivere per la pace, oggi, qui?

Arrivando in terra pakistana, mi è subito sorta spontanea una domanda: com’è possibile che cristiani, musulmani, hindu e persone di altre religioni presenti in queste strade, vivano in apparente accordo e con una certa armonia, nonostante tutto? Soprattutto, com’è possibile che ci siano scuole cristiane in un Paese a maggioranza musulmana e non privo di tensioni? Le scuole cristiane in Pakistan sono 756, per un totale di 32 mila studenti.

Certo, la convivenza interreligiosa non è facile, ma, se non erro, mi sembra che neppure in Occidente sia facile vivere: non mi sembra che a New York, Roma o Londra, si viva una fiaba dal punto di vista della convivenza interetnica e interreligiosa.

Leggo le notizie che arrivano dal Medio Oriente e rimango sconcertato. Mi aggiro tra i bambini qui a Islamabad, di una scuola cristiana, e rimango sorpreso: alle 7.30 del mattino gli alunni si preparano per la preghiera mattutina seguita dall’inno nazionale pakistano. Una preghiera adatta a tutte le religioni dei presenti. È uno spettacolo vedere il futuro di questo Paese ricco di risorse, ma anche di contrasti e strade polverose e affollate, che mi ricordano tanto quelle di Betlemme, di Gerusalemme e del Medio Oriente, dove sono stato, e dove Gesù di Nazaret ha vissuto e dato la sua vita: pietre, deserti, ulivi, gente, popoli, turbanti e colori di pelle molto differenti. Sì: siamo diversi, eppure uguali, noi, donne e uomini di questa umanità. Una bambina di 5 anni mi guarda e sorride: poi mi porge la sua minuscola mano per un batti cinque. Lei a me: ha avuto più coraggio lei di me. Due occhi grandi, rotondi, pieni di speranza e di vita che verrà. In quegli occhi trovo la ragione del mio viaggio in Pakistan: qui vi ho visto la speranza di un Pakistan unito, di gente che riesce a vivere insieme, nonostante tutto. È qui, dentro il nonostante tutto, che sta il segreto della vita. Includere, non escludere. Non lo impareremo mai abbastanza.

 

Il Pakistan mi ha donato speranza e anche una certezza: che possiamo vivere insieme, con religioni e culture diverse. Possiamo pensare e prenderci cura gli uni degli altri. Perché c’è bisogno di questo oggi: salutarci per le strade e dire con i gesti e il volto (e anche con le parole): “Sono felice di stare, di essere qui”. È quello che faccio, incontro dopo incontro, venditore di pane dopo venditore di datteri: uno ad uno… ci provo con tutti. E la gente mi risponde, incredibilmente sensibile al fatto che uno straniero, un bianco, è qui in mezzo a loro e non ha paura di loro. Il Pakistan ha bisogno certamente di solidarietà, ma l’aiuto che mi sembra più importante è quello di offrire il coraggio di dialogare, di stringere mani, di donare segni amichevoli e disinteressati, nei mercati rionali e ovunque è possibile, che abbiano un significato vicino al “non ho paura di te, amico”. Mi sento chiedere spesso: “Da dove vieni, signore?”. “Vengo dall’Italia!”, rispondo. “Oh, l’Italia è bella: benvenuto in Pakistan, signore. Ti piace il mio Paese?”. Quante volte me lo sono sentito dire e soprattutto, quanto volte mi sono sentito guardato negli occhi, da uomini e donne, cristiani e musulmani, conosciuti nei mercati. Quanta acqua ho ricevuto in regalo, quanti dolci, piccoli gesti di umanità, per il solo fatto che mi sono fermato davanti ad una bancarella in un mercato superaffollato. Quel venditore musulmano, vestito in abito locale, non mi aveva mai visto: eppure mi ha accolto regalandomi il suo sapone artigianale. Sulla terra non esiste un altro mondo: esiste questo. E in questo mondo, io, tu, noi tutti, dobbiamo stringere mani e toccare i cuori: uscire dalle nostre paure per incontrare l’altro. Finché abbiamo tempo.

Oggi parto da questo Pakistan ma lascio il mio cuore e la voglia di vivere, di andare avanti. È il regalo che mi porto dentro. Si dice da queste parti: “Se non sei passato da Lahore, non sei nato”. Sento che la mia vita di reporter, di uomo, dopo 20 giorni in Pakistan, è cambiata: in meglio. Mi sembra di aver trovato un nuovo senso alla mia vita e mi tornano alla mente le parole di Chiara Lubich, che tanti anni fa pronunciò quando, anche lei, dovette partire per ritornare nel mondo: «Mio tutto ciò che non è bello, amabile, sereno…». Ed io mi ripeto: «Mio il Pakistan, mio l’Afghanistan a soli 400 km: miei i terremoti, mie la guerre, mie le povertà, mie le epidemie e la gente per strada». In quelle parole trovo la ragione forte che mi spinge ad aiutare questa umanità che soffre, che vive e spera.

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