L’Australia dice no alle riforme a favore degli aborigeni
La proposta referendaria prevedeva l’introduzione della cosiddetta Indigenous voice to Parliament, un organo ad hoc che avrebbe dovuto offrire la possibilità per le popolazioni native di presentare direttamente delle proposte di legge su questioni inerenti i loro interessi e diritti. Il responso della tornata referendaria è stato chiaro: circa il 57% dei votanti si è dichiarato contrario mentre il 43% è risultato a favore.
La questione è complessa e annosa. In Australia, infatti, non esiste nessun tipo di accordo che permetta alle popolazioni native del continente e lì residenti prima dell’arrivo dei colonizzatori inglesi di essere pienamente riconosciute nei loro diritti. Fra l’altro, solo nel 1967 queste persone hanno ottenuto il diritto al voto. Si tratta di una situazione seria, soprattutto se messa a confronto con altri Paesi nel mondo con un retaggio coloniale britannico (Canada, Nuova Zelanda e Stati Uniti, per esempio), e che presentavano, in partenza, una problematica simile riguardo a coloro che sono definiti in più modi: aborigeni, natives (popolazioni native) o anche first nation (nazione originaria). A differenza di altri contesti simili, in Australia non è mai esistito un accordo-trattato per regolare i rapporti fra questi discendenti delle popolazioni che già abitavano il continente e coloro che discendono, invece, dagli europei. Il concetto centrale della controversia è quello della terra nullius, che afferma che la terra in Australia non apparteneva a nessuno prima dell’arrivo dei colonizzatori britannici.
Negli ultimi anni, richieste di riforma costituzionale sono state avanzate da associazioni di discendenti degli abitanti originari. Nel 2017, per esempio, era stata presentata la cosiddetta Uluru Statement from the Heart (la Dichiarazione di Uluru), firmata da 250 leaders di queste comunità. In quel documento, che venne respinto dall’allora primo ministro Malcolm Turnbull, gli aborigeni lamentavano di sentirsi “impotenti” nell’affrontare qualsiasi problema riguardante le loro comunità. Da qui, si affermava, derivano i diversi problemi strutturali che affliggono queste comunità, che restano comuni a quelli sperimentati da gruppi negli altri Paesi di cui abbiamo fatto menzione. Si tratta di un’aspettativa di vita più breve, di processi di scolarizzazione problematici e di assistenza sanitaria piuttosto deficitaria. Una delle conseguenze più evidenti di questo stato di cose sta, poi, nell’alto tasso della delinquenza all’interno di questi gruppi rispetto al resto della popolazione.
In questo contesto, il ruolo dell’attuale primo ministro, Anthony Albanese, in carica dal 2022 è stato, senz’altro, positivo. Infatti, dopo una intensa consultazione, ma in tempi abbastanza brevi, si era arrivati, all’inizio dell’anno in corso, a proporre ed approvare il referendum, poi tenutosi nei giorni scorsi. Va anche precisato che mezzo secolo addietro – nella prima metà degli anni Settanta del secolo scorso –, un altro premier laburista, Gough Whitlam (1972-1975), aveva proposto le prime riforme sull’ordinamento che riguarda queste popolazioni. Fra queste, quella senz’altro più significativa era stata la creazione del Dipartimento degli Affari Aborigeni.
L’attuale referendum era stato appoggiato dai laburisti e dai verdi e osteggiato dai conservatori. Ma, fra coloro che si erano opposti al referendum, non dobbiamo dimenticare che si annoverano anche associazioni aborigene. Fra queste, la più attiva è risultata il Blak Sovereign Movement (Bsm), che ha motivato la sua contrarietà giudicando la riforma insufficiente ed inadeguata ai bisogni delle comunità interessate. La leader di questa associazione è una ex-senatrice verde, Lidia Thorpe, che si era dimessa dal suo seggio parlamentare come segno di chiara rottura con la proposta di riforma, il referendum e il retaggio colonizzatore inglese.
Già in sede di giuramento dell’esecutivo nell’agosto dello scorso anno, la Thorpe alla formula prevista – «giuro totale lealtà a Sua Maestà la regina Elisabetta II» – aveva aggiunto al nome della regina l’epiteto di colonizzatrice. Aveva accompagnato il tutto con il pugno chiuso alzato. La posizione di queste associazioni di aborigeni contrarie al referendum è da ricercarsi nella convinzione che arrivare ad un riconoscimento all’interno della Costituzione equivalga, di fatto, a cedere le terre al governo di Canberra.
L’alternativa da loro proposta era quella di trattative dirette col governo per arrivare alla firma di un accordo vincolante per l’amministrazione attuale e futura. In effetti, il risultato del referendum ha confermato le proiezioni della vigilia che, in un clima di polarizzazione, prevedeva un netto vantaggio di coloro che sono contrari rispetto ai favorevoli (60% contro il 40% rispettivamente). E così è stato decretato anche dal risultato emerso dalle urne. È opportuno ricordare, comunque, che la tendenza iniziale, quando il referendum era stato annunciato, sembrava chiaramente a favore dei “Sì” per garantire il riconoscimento dei popoli autoctoni. In molti rimane il senso di recriminazione per una possibilità persa.
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