Ancora padri e figli al cinema

È un soggetto mai abbastanza affrontato. Lo rivelano film come Dogman e L’imprevedibile viaggio di Harold Fry. In sala.
Caleb Landry Jones in posa per una foto di promozione del film Dogman a Venezia (Photo by Vianney Le Caer/Invision/AP) Associated Press/LaPresse Only Italy and Spain

Il sesso debole sono gli uomini, oggi. Anzi, i padri. Violenti o superficiali. Anaffettivi, comunque, spesso. E sono le madri a badare ai figli – quando vogliono – o a proteggerli in qualche misura.

Succede in America quando il padre di un ragazzino, un genitore violento con lui e la madre, fondamentalista cristiano, lo rinchiude in una gabbia per cani, lo ferisce costringendolo a vivere su una sedia a rotelle da emarginato sociale. Poi sparisce, insieme alla madre-vittima e al fratello instabile. Il ragazzo diventa uomo e vive con i cani, gli unici che gli danno amore, anche se hanno il difetto di «essere fedeli agli uomini». Lui crede anche in Dio, si interroga sul dolore, lo cerca. Frequenta da travestito i locali di drag queen esibendosi come cantante nei panni di Marylin Monroe, di Marlene Dietrich e di Edith Piaf. È un uomo randagio e sperduto che però ha scelto di vivere a modo suo la sfida della vita. Gli capita di uccidere qualcuno che gli vuole male e finisce in carcere. Qui verrà interrogato da una psichiatra alla quale racconterà la sua storia perché anche lei «ha conosciuto il dolore». Malato, sa di dover morire almeno all’ombra di una croce.

Un racconto duro e meraviglioso questo di Dogman che avrebbe meritato il Leone a Venezia, in cui un attore prodigioso come Caleb Landry Jones si cala nei panni della creatura emarginata, indifesa alla quale «Dio, ovunque ci sia un infelice, invia un cane», secondo il poeta Lamartine. Film sull’amore come soluzione a dolori immensi che fanno di questo crocifisso del nostro tempo un eroe, un “uomo di Dio” come dice il titolo (dog anagramma di God). Luc Besson indaga l’infelicità contemporanea, i figli odiati dal padre, il cane come oggetto d’amore e fuga da un mondo duro e Dio come presenza cercata da questo Joker con l’anima.

Ed è ancora un padre, anafettivo, vecchio e spaesato il protagonista de L’imprevedibile viaggio di Harold Fry di Hettie Macdonald. Harold è un uomo qualunque inglese, vive con la moglie anziana ed energica. Hanno perduto il figlio ipersensibile, suicida, e fra la coppia è calato il gelo della quotidianità e del rancore, da parte di lei. La lettera di una collega in fin di vita sveglia Harold che si decide: farà 800 chilometri a piedi per trovarla e scusarsi di una ingiustizia fattale tempo addietro. Finché lui camminerà, lei vivrà: è la sua fede, come gli racconta una ragazza dai capelli viola: «la fede guarisce le persone». La moglie non capisce, è arrabbiata, lui viaggia con l’aria smarrita, pronto ad ogni imprevisto. Harold non è credente ma ha fede che rivedrà l’amica. Viaggia solo, tra numerosi disagi, fa incontri con persone diverse, addirittura diventa un soggetto mediatico, attira altri “pellegrini” che vogliono unirsi a lui. Ma poi comprende di venire strumentalizzato e cammina da solo insieme ad un cane. Quando è vicino al paese dove sta l’amica anche il cane lo abbandona e pure il coraggio: vorrebbe tornare a casa. È la “prova” della fede. È la moglie a sostenerlo. Harold visita l’amica, le dona una collana con un cristallo. A questo punto il vecchio così chiuso e gentile lascia aprire il cuore: piange la morte dell’unico figlio. Il pellegrinaggio fatto per amore ha ridato luce alla sua vita. La fede lo ha salvato? Cosa è la fede? È il cristallo che ondeggia alla luce e attende di fermarsi?

Appassionato, tenero, con i paesaggi umidi e gli occhi azzurri di Harold e di rara profondità, il film vive sulla interpretazione da Oscar di Jim Boadbent, indimenticabile, e di un coro di attori di notevole spessore. Da non perdere.

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