Laudate Deum, appello davanti l’abisso
«Perché si vuole mantenere oggi un potere che sarà ricordato per la sua incapacità di intervenire quando era urgente e necessario farlo?». Il messaggio della “Laudato Si’”- amore, salvezza e liberazione oltre i credenti – caratterizza anche la recente esortazione papale “Laudate Deum”, che, tuttavia, è ben più che un aggiustamento del tiro della precedente Enciclica. Anzi, traspare con una certa ruvidezza la percezione di un’accoglienza tuttora insufficiente della predicazione del papa tra i fedeli e di un ostinato permanere del negazionismo nelle aree di potere. In effetti, il linguaggio accessibilissimo, che annuncia l’emergenza climatica come punto di rottura per l’umanità, non è stato affatto amplificato né dalla stampa né dalla politica, che hanno sostanzialmente accolto le drammatiche riflessioni di Bergoglio come un rimediabile inciampo sulla via di una problematica crescita vieppiù sostenuta da conflitti e armi anche dopo la pandemia.
La profonda inquietudine, che contrasta la speranza che inondava invece quel primitivo cenno di superamento dell’antropocentrismo e di storicizzazione dell’Universo su cui l’umanità approda solo dopo 14 miliardi di anni dal Big Bang, questa volta non ha ancora “preso le ali”.
Eppure, ci troviamo di fronte non più solo ad un anticipatore, ma ad un testimone diretto: Francesco esamina con cura i dati forniti dall’IPCC e li conferma con la testimonianza e la consapevolezza con cui le popolazioni del globo affrontano perturbazioni senza precedenti, che attestano quanto la variazione climatica in corso sia in brusca e insostenibile accelerazione.
La disparità di lunghezza del documento presentato il 4 ottobre rispetto all’Enciclica precedente rende evidente come il nuovo passaggio voglia insistere tangibilmente sulla portata e l’estensione del peggioramento dovuto all’azione antropica e ne precisi il significato. «La riflessione e le informazioni che possiamo raccogliere da questi ultimi otto anni ci permettono di specificare e completare ciò che abbiamo affermato qualche tempo fa».
Il fatto è che noi, schiacciati su un presentismo continuo – oggi caratterizzato dalla immane tragedia della “guerra mondiale a pezzi” – subiamo un disorientamento temporale e ignoriamo quello che abbiamo sotto gli occhi e non abbiamo fino in fondo il coraggio di indicare per condividere un futuro socialmente e ambientalmente desiderabile.
Lo scenario dopo otto anni è cambiato, ma Bergoglio non intende cambiare narrazione, nonostante l’orizzonte si sia fatto più precario.
Perciò, insistendo con un linguaggio essenziale che evoca un cambio d’epoca, accusa la politica e il potere di non prendere atto dell’abisso che si apre davanti allo stupore per la vita in un tempo che viene a mancare. L’efficacia e l’originalità dell’esortazione della “Laudate Deum”, a parer mio, sta nell’interpretare il nuovo immaginario umano, il quale deve tener conto – in base alle nuove scienze sviluppate a cavallo del millennio – di un universo di cui siamo solo minuscola parte, nato miliardi di anni addietro per una fluttuazione quantistica del vuoto e poi rigeneratosi continuamente per successive cosmogenesi, fino ad ospitare la vita su un pianeta roccioso e ricco di acqua come la Terra.
Nel testo papale si passano in rassegna le conoscenze attuali sui cambiamenti climatici antropogenici, basandosi sui documenti pubblicati negli ultimi due anni dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC). Papa Francesco constata che «non possiamo più fermare gli enormi danni che abbiamo causato. Siamo appena in tempo per evitare danni ancora più drammatici» (n. 16) e «non possiamo più dubitare che la ragione dell’insolita velocità di così pericolosi cambiamenti sia un fatto innegabile: gli enormi sviluppi connessi allo sfrenato intervento umano sulla natura negli ultimi due secoli» (n. 14). È stupefacente come in un documento col sigillo pontificio noi troviamo elencate le analisi più allarmanti che l’IPCC pubblica periodicamente.
Siamo di fronte ad una constatazione puntigliosa di come in questi ultimi otto anni ci stiamo avvicinando al punto di non ritorno, con fenomeni estremi che si diffondono ben al di fuori di luoghi lontani o poco praticati. Luoghi altresì stampati nell’immaginario di intere popolazioni anche del Nord ricco del Pianeta, in seguito, ad esempio, alla sparizione di foreste sradicate da improvvisi tifoni, alla siccità estrema in pianura padana, all’estinzione dei ghiacciai che hanno accompagnato le nostre gite lungo l’arco alpino, alle alluvioni romagnole o a quelle tedesche o, ancora, agli incendi nella Carnia come in Canada. Il mondo che ci accoglie si sta sgretolando e forse, addirittura, “si sta avvicinando a un punto di rottura”.
Di seguito, viene ripresa la critica al paradigma tecnocratico che tende a coincidere «con il semplice incremento del potere di trasformare la realtà, svincolato da qualsiasi valutazione morale e messo al servizio di chi ha maggiori risorse economiche, ai fini del massimo profitto, consolidando ulteriormente i privilegi di pochi» (n. 32). La logica insita in questo paradigma esalta ogni aumento di potere come un progresso per l’umanità, ma si sottrae al confronto sui risvolti etici del suo esercizio e sui limiti che incontra oltre che sulle conseguenze in termini di sfruttamento.
Lo sguardo alle periferie, insieme all’ascolto del «grido della terra e dei poveri» mette in luce la debolezza della politica internazionale, prendendo atto della crisi del multilateralismo e della necessità di ripensarlo in un’ottica maggiormente inclusiva delle forze della società civile. Inoltre, la diplomazia dovrebbe «democratizzare la sfera globale, ripensando i processi decisionali nelle sedi internazionali». In sostanza, la mitigazione del clima può progredire solo se le politiche sono coordinate multi lateralmente a tutti i livelli di governance e – io aggiungo – di movimento organizzato.
È questa la radice dell’appello per una riconfigurazione del multilateralismo (LD, nn. 37-43). Si tratta di un capitolo di grande interesse, perché mostra molto bene come per papa Francesco il richiamo profetico all’esigenza di un cambiamento radicale non sconfini mai in una utopia sterile, ma si combini sempre a un estremo realismo: le principali organizzazioni internazionali e la diplomazia finora hanno fallito – questa affermazione non potrebbe essere più chiara –, ma restano strumenti di cui non possiamo fare a meno nella promozione del bene comune universale. Sebbene siano mezzi limitati, non ne abbiamo di più validi e per questo ha senso continuare a insistere sulla loro riforma.
In definitiva, non sono tanto le istituzioni statali, ma le loro articolazioni a livello territoriale, municipale e cittadino, con il sostegno della democrazia diretta, che devono coartare il nazionalismo oggi imperante. Insomma, di fronte al fallimento delle élite, la strada da percorrere è innanzitutto quella dal basso e l’appello va ai giovani in particolare.
Urgenza, visione e responsabilità riguardano innanzitutto le vittime delle conseguenze dei cambiamenti climatici, come le famiglie, le persone più vulnerabili, i lavoratori, che sono però anche tra coloro che possono esercitare un ruolo fondamentale per invertire la rotta e contribuire a «realizzare grandi processi di trasformazione che operano dal profondo della società».
Per giungere a «soluzioni più efficaci» servono le «grandi decisioni della politica nazionale e internazionale». È in questa prospettiva che si può comprendere l’attenzione che il testo riserva alla COP28, ospitata dagli Emirati Arabi Uniti a Dubai il prossimo dicembre, nella speranza che si dimostri l’occasione per «una decisa accelerazione della transizione energetica, con impegni efficaci che possano essere monitorati in modo permanente». Purtroppo, la storia delle Cop non lascia adito alla speranza di un passaggio così ardito quale quello richiesto.
Da ultimo una considerazione sull’ingiustizia climatica tragicamente compromessa e tuttora spesso imposta in chiave di autentica colonizzazione delle popolazioni e dei ceti più poveri. Se, in conclusione, possiamo ritenere che i primi destinatari dell’esortazione apostolica siano indubbiamente coloro che ricoprono ruoli di potere nei processi decisionali legati al clima, non si può trascurare il fatto che «le emissioni pro capite negli Stati Uniti sono circa il doppio di quelle di un abitante della Cina e circa sette volte maggiori rispetto alla media dei Paesi più poveri» e «che un cambiamento diffuso dello stile di vita irresponsabile legato al modello occidentale avrebbe un impatto significativo a lungo termine». Qui siamo ad una puntuale applicazione dell’ormai consolidato principio delle responsabilità comuni ma differenziate, uno dei capisaldi del diritto internazionale ambientale, che mette esplicitamente lo stile di vita dell’Occidente sul banco degli imputati e soprattutto identifica dove occorra produrre i cambiamenti più incisivi.