Voglia di felicità
Lei, Micaela, romana di periferia ha sempre interpretato ruoli di persone al limite, generose, un po’ pazze, spesso molto “romane”. Ora, per la prima volta, dirige un suo film dal titolo insolito Felicità che a Venezia ha vinto il Premio degli spettatori-Armani Beauty (nella foto, la premiazione). Nel film, che è tra le righe non troppo nascoste, molto personale, lei è Desiré che trucca gli attori sui set. Generosa, istintiva, fin troppo semplice e poco acculturata va un po’ con tutti, intanto mette via soldi per il futuro. Il guaio è che la sua famiglia è veramente scombinata: il padre è un narciso che approfitta dei suoi soldi, la madre una casalinga frustrata ed ha un fratello depresso che di fatto cura solo lei. Desiré è legata ad un professore (Sergio Rubini) imbarazzato davanti alla sua straripante spontaneità ma anche dal fatto che lei è troppo presa dai problemi familiari, in particolare dal fratello che fa ricoverare in clinica quando tenta il suicidio. Una vita difficile tra set,ospedali, gli usurai, il padre truffatore, l’amante che la tradisce lei stessa disabituata a riflettere e troppo buona.
Tutti cercano la felicità in questa sfilata di “poveri cristi”: il padre scioperato, la madre che beve, il fratello che vorrebbe morire e lei che vorrebbe un figlio e una vita più calma. Difficile essere felici, oggi, specie se si è come lei, sfruttata fin dall’infanzia. Eppure tutti cercano un poco di felicità in un mondo volgare e sporco.
La regia mette a fuoco opportunismi, falsità, malattie mentali, chiusure egoistiche al contatto con una ingenuità generosa e istintiva di una donna fragile che in fondo sfida tutti. Il film, se all’inizio potrebbe sembrare il solito lavoro romano-periferico, poi sale di tono e Desiré diventa quasi una eroina tragica in cui l’attrice-regista si immedesima totalmente insieme ad un cast all’altezza. E lei, la Ramazzotti, l’ha trovata la felicità? Dalle ultime scene e dal volto di lei, maturata dal dolore, si dovrebbe trovare la risposta.
Anteprima
L’ultima volta che siamo stati bambini, regia di Claudio Bisio, è un film gentile e dolente sull’amicizia di quattro ragazzini romani nel 1943 al tempo della razzia nazifascista al ghetto. Italo è figlio di un gerarca, Cosimo ha il padre al confino, Vanda è un’orfana, Riccardo è figlio di ricchi ebrei. Giocano alla guerra, inconsapevoli e felici, ma la guerra è in mezzo a loro. Una notte Riccardo viene portato via: i tre amici, che hanno fatto “il patto dello sputo”, scappano di casa e si mettono alla sua ricerca. La suora che segue la ragazzina e il fratello di Italo, soldato, fanno lo stesso a cercare i ragazzini. Questo viaggio sia dei bambini come dei due adulti è una scoperta della vita, dei rapporti, della crudeltà, dell’amicizia ed anche dell’amore. Sino ad una conclusione inaspettata.
Bisio ripercorre l’orrore della guerra con discrezione, narra l’affacciarsi alla vita dei bambini e svela i sentimenti dei due adulti. Nessun clichè, nessuna retorica, il film scorre semplice e commovente con una limpidezza data dalla magnifica interpretazione dei ragazzini. È un viaggio anche senza tempo in cui il soldato e la suora si confrontano sulla fede e i valori (un cenno al “silenzio” della Chiesa sugli ebrei è presente), mentre la realtà della morte è ben presente, ma sfumata dalla gioia di vivere e dal coraggio dei tre amici. Di una freschezza insolita. Da non perdere. Esce il 12 ottobre.