Un anno di governo Meloni
Trascorso un anno dalle elezioni politiche, i media si sono concentrati sul bilancio dell’attività del governo Meloni (che in verità si è insediato con il giuramento il 22 ottobre 2022). Il modellino ormai saldamente affermatosi per le cose pubbliche è stato riprodotto in pieno: divisione perfettamente contrapposta nel giudizio, per cui le testate “amiche” del governo ne hanno cantato l’osanna, le altre il crucifige. Pressoché impossibile farsi un’idea realistica. Necessario quindi dare un’occhiata alle testate estere, non sempre aliene dalla partigianeria ma comunque con sempre più difese dalla faziosità smaccata.
E cosa si ricava? Innanzitutto che le coordinate di osservazione sono principalmente due: la politica estera e la gestione della finanza pubblica, gli ambiti, cioè, che più di altri muovono i timori degli altri Paesi, anche extraeuropei. E per entrambe queste grandi e decisive aree Giorgia Meloni ottiene la promozione, più ampia per la politica estera che per la finanza pubblica.
Lo scenario internazionale è stato individuato dalla neo presidente del Consiglio come quello cui dedicare maggiori attenzione e attività e questo va a suo merito. Escludendo i due accessi alla Città del Vaticano, sono circa 40 le volte in cui è uscita dall’Italia per mettere piede in suolo estero, anche ripetutamente (come per la Tunisia) e bisogna anche moltiplicare alcuni viaggi con mete-summit, tipo il G20 o COP27, per tanti bilaterali quanti quelli svoltisi nell’occasione. Questi viaggi hanno avuto come architravi il sostegno all’Ucraina, la costruzione e il consolidamento di rapporti intraeuropei e con le istituzioni europee e l’esplorazione di progettualità, quali “il piano Mattei” per l’Africa, bisognose di verifiche e maturazione nel crogiuolo degli attori plurali e poliedrici con i quali dovrebbe inverarsi. Il tutto inquadrato all’interno di un rinnovato consolidarsi della scelta Atlantica, che ha portato un insospettato feeling con il presidente Biden.
Certo, non si può mettere sotto traccia che una buona parte del movimentismo estero è stato determinato dal gigantesco problema dell’immigrazione, affrontato lì per lì con l’approccio delle promesse elettorali: ottenerne la cessazione. Non più con i “blocchi navali”, subito rivelatisi impraticabili, bensì con lo stop alle partenze. Non potendo agire direttamente sui paesi di partenza, l’interlocutore è divenuto il presidente tunisino Kaïs Saïed, con tutti i rischi e i pericoli del trattare con un ormai acclarato autocrate, rischi e pericoli che si aggiungono a quelli – tragicamente noti – insiti nella politica di trattenimento di rifugiati e migranti in terre poco sensibili ai diritti umani. Al momento questa politica, agita di concerto con la Presidente della Commissione europea Ursula Van der Leyen, non ha prodotto gli effetti sperati e anzi gli sbarchi sono aumentati in gran numero, il che è stato oggetto di un esplicito riconoscimento da parte della Presidente Meloni. Che però non demorde e torna a rilanciare il “piano Mattei”, pur nella freddezza ostentata da altri partner europei, Francia in testa.
Ma guardiamo un attimo all’altro ambito di attività che ha riscosso un’approvazione di massima dai nostri osservatori esteri, la finanza (per meglio dire, il governo del nostro mostruoso debito pubblico). Ricordiamo come l’esordio del governo Meloni avvenne proprio con la legge di bilancio 2023, che stupì per la morigeratezza delle scelte e il contenimento dell’indebitamento. Durante l’anno, poi, l’andamento favorevole dell’economia ha favorito un seppur lieve miglioramento del rapporto debito/pil. Saltando a piè pari alcuni incidenti di percorso (che non per tutti sono tali) come il tentativo di imporre la c.d. “tassa sugli extraprofitti” alle banche, oggi che siamo alla vigilia di una nuova legge di bilancio, la prova del rigore nei conti diventa per Giorgia Meloni doppiamente impegnativa. Innanzitutto perché le somme destinabili a nuove spese sarebbero comunque state esigue, ma lo sono ancor di più per la nota questione legata alle imponenti ricadute sulla finanza pubblica dei bonus e super-bonus edilizi e al peggioramento dell’economia e della finanza, a partire dallo spread. E poi perché il 2024 è un anno elettorale, le europee incombono e non c’è nulla da fare, ormai la nostra politica, di destra e di sinistra, è saldamente assestata su programmi-progetti-promesse di spesa pubblica oltre ogni ragionevole possibilità. Occhio perciò, perché non sarà tutto oro quello che brillerà negli annunci.
Certo, un anno di governo ha prodotto tante altre scelte non meno significative ma più in linea con le aspettative legate a una compagine di destra: l’iper-penalismo, per cui abbiamo visto creare o irrobustire figure di reato derivanti da fatti e fattacci di cronaca; la politica dura sull’immigrazione (in verità dura e realista allo stesso tempo, visto che il decreto flussi ha previsto un numero di ingressi multiplo dei precedenti); il calcare alcune retoriche dietrologiche e colpevoliste di istituzioni o governi precedenti, che fanno tacciare di vittimismo il presidente e tutto il governo; la conferma di alleanze politiche estere piuttosto contradditorie con gli indirizzi di governo… Infine, come non citare le operazioni (ed epurazioni) strategiche in materia di comunicazione, mirate espressamente a superare l’egemonia del politicamente corretto? Tutte scelte, certo, valutabili secondo la propria sensibilità, senza però poter nascondere che si viaggia per lo più su un filo molto sottile dello stato di diritto.