Alla scoperta di Testaccio, l’ottavo colle di Roma

Milioni di “vuoti a perdere” hanno dato origine al romano Monte dei Cocci.
La fontana delle anfore nel quartiere Testaccio a Roma, foto di malditofriki, CC BY 2.0, Wikimedia Commons

È risaputo che l’antica Roma veniva chiamata la città dei sette colli. In realtà, a partire dall’età augustea, ai sette se ne aggiunse un ottavo, stavolta artificiale, da cui ha preso nome l’attuale rione del Testaccio: quel Mons Testaceus che altro non è che una discarica di anfore rotte (testae in latino) accumulatesi nell’arco di vari secoli nella piana tra l’Aventino e la riva sinistra del Tevere, come residuo dei trasporti che facevano capo al vicino Emporium.

Provenienti in massima parte dall’Andalusia (l’antica provincia romana denominata Hispania Baetica), quei contenitori erano serviti a trasportare il rinomato frutto degli uliveti di quella terra. Solo per un venti per cento arrivavano dalla odierna Tunisia (la provincia Byzacena), anch’essa grande produttrice di olio. Scaricati da navi onerarie approdate ad Ostia, da lì risalivano il Tevere a bordo di barconi per essere poi immagazzinati nel porto fluviale dell’Urbe. Erano “vuoti a perdere” in quanto l’olio non consentiva di riciclarli, ciò che invece avveniva per le anfore vinarie o adibite ad altri generi di derrate: queste sì, potevano essere utilizzate come tombe per poveri o come orinatoi lungo le strade, reimpiegate nell’edilizia o, anche, ridotte in pezzi minuti, diventare ingredienti per il cosiddetto “cocciopesto” di pareti e pavimenti.

Fu dunque l’olio all’origine dell’altura oggi nota come Monte dei Cocci. Olio di cui gli antichi romani facevano un uso smisurato nel campo alimentare, sanitario e cosmetico, ma soprattutto per l’illuminazione degli ambienti. Ecco il perché dello straordinario numero di anfore olearie accumulate nel corso dei secoli fin verso i primi decenni del III d. C.: addirittura 50 milioni di esemplari secondo le stime degli studiosi, tenendo conto che il “monte”, alto oggi circa 35 metri con un perimetro di circa 850, doveva arrivare ai 40 metri prima dell’innalzamento del terreno circostante.

Va precisato che la discarica non si formò in modo caotico, ma seguendo precise regole: mediante gradoni via via sovrapposti e arretrati, percorsi da rampe che consentivano agli animali da soma di trasportare in cima i frantumi di anfore. Per dare poi consistenza e stabilità all’accumulo di strati ben ordinati, si provvedeva a distendervi sopra gettate di calce, che fra l’altro eliminavano il puzzo dovuto alla decomposizione dei residui oleosi. Un esempio da imitare per altre moderne discariche?

Qualche decennio dopo la fine del suo utilizzo, il Mons Testaceus venne incluso nella nuova cerchia delle mure Aureliane; ma ormai in abbandono, ricoperto di erbe e arbusti, divenne terra di pascolo se non anche di orti. Nel Medioevo, alla sua base vennero scavate grotte ritenute luogo ideale per conservare il vino grazie alla circolazione d’aria nelle pareti formate da cocci (ancora si riconoscono gli ingressi di alcune di esse). In seguito fu luogo di feste sacre e profane, di esercitazioni militari delle truppe pontificie, nonché cava di materiali. I primi interventi di tutela per evitare devastazioni da parte degli scavatori clandestini si devono a papa Benedetto XIV (1740-1758).

Solo nell’Ottocento, soprattutto verso la fine del secolo, il “monte” attirò l’attenzione degli studiosi. I primi saggi di scavo e i primi studi scientifici di Heinrich Dressel, ai quali si sono aggiunti quelli iniziati nel 1989 da una missione archeologica spagnola, hanno fornito una enorme massa di informazioni non solo sugli approvvigionamenti della Roma imperiale, ma anche su tutta la storia economica dell’Impero e dei rapporti tra capitale e province.

E questo perché moltissime anfore “parlano”: grazie alle scritte dipinte o graffite rinvenute su di esse, in aggiunta ai bolli di fabbricazione, oggi sappiamo la qualità, la tara e il peso netto dell’olio contenuto in ciascuna, il luogo d’origine, i nomi del produttore, del trasportatore e dei funzionari addetti ai controlli, e infine la data espressa, come di consueto, con i nomi dei due consoli in carica nell’anno in cui le operazioni erano state effettuate.

Questo straordinario archivio a cielo aperto è normalmente interdetto al pubblico. La visita è consentita solo su prenotazione a gruppi accompagnati. Sono comunque ben visibili dall’esterno, oltre la cintura di casupole e di trattorie che circondano la base del “monte”, le stratificazioni di cocci affioranti tra la vegetazione.

E altro ancora riserva il Testaccio: da pochi anni, sotto il Nuovo Mercato Comunale in via Aldo Manuzio, è stata musealizzata un’area risalente alla prima età imperiale, riservata allo stoccaggio e allo smaltimento di anfore e di materiale edilizio: una serie di cortili, un tempo a cielo aperto, delimitati da recinti composti nient’altro che da allineamenti di questi contenitori dai mille usi.

Concludo con un’opera divenuta emblema del Testaccio, che abbellisce la piazza omonima: la Fontana delle Anfore. Realizzata in travertino dall’architetto Pietro Lombardi nel 1927, pochi anni dopo l’istituzione ufficiale del rione, rappresenta un ammasso di anfore addossate le une alle altre così come venivano stivate nelle navi onerarie; l’acqua che sgorga in alto le riveste di un velo liquido, per poi riversarsi alla base in quattro vaschette rettangolari recanti a bassorilievo, sul lato corto verso l’esterno, un’ulteriore anfora fornita di cannula per il refrigerio del passante assetato. Un riuscito esempio di fontana pubblica che combina finalità ornamentale e praticità.

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