Cervelli in fuga, un trend in aumento
Sono giovani, brillanti e sfiduciati. Brillanti perché sono cresciuti a pane e libri, nutrendo sogni che faticano a tradurre in lavoro e denaro. Delusi perché le promesse, in termini di impegno e di lavoro, non corrispondono al vero. E dopo le prime brucianti esperienze lavorative spesso confuse, con tirocini e stage a seicento euro al mese, incapaci di adattarsi a lungo, decidono che vale la pena provarci. E così partono per paesi lontani, in cerca di nuovi lidi in cui il pezzo di carta o le abilità apprese siano apprezzati e soprattutto “pagati bene”.
E se negli ultimi due anni, l’emigrazione è cresciuta (dati Fondazione Migrantes) lo si deve soprattutto a loro, giovani fino a 34 anni, espatriati e trasferiti altrove in numeri sempre più impattanti.
Addirittura, si è passati, lo dicono le statistiche ufficiali, dal 37%al 61%. Sono perlopiù maschi (54,7%), in generale per entrambi i sessi celibi e nubili (66,8%), provenienti dalla Lombardia (19%), Veneto (11,7%), Sicilia (9,3%), Emilia-Romagna (8,3%), Piemonte (7,4%). Partono con un progetto di vita del tutto inedito per risiedere prevalentemente in Europa: Regno Unito (23%), Germania (14%), Francia (11,3%), Svizzera (8,9%), Spagna (5,8%).
Se proprio devono andare lontano, scelgono il Brasile per il 5,4%. Il triplice rifiuto percepito dai giovani italiani – anagrafico, territoriale e di genere – li incentiva alla fuga all’estero, attratti da: retribuzioni, prospettive di carriera, contesto di fiducia e di stabilità, welfare, qualità della vita.
A fare le valigie sono persone istruite e qualificate: medici, ingegneri e specialisti IT. Le ragioni della “fuga” sono diverse, ma in cima troviamo le retribuzioni e le prospettive di carriera. Da neolaureato chi parte a un anno dal titolo ha una retribuzione mensile media di circa 1.963 euro netti. Contro i 1.384 euro percepiti in Italia. A cinque anni il gap si allarga: più di 2.352 euro all’estero contro i circa 1.600 in Italia. Pesa poi la stabilità contrattuale: fuori dall’Italia, ad esempio in Nord Europa – si pensi a Paesi Bassi, Svezia e Norvegia – c’è una minore incidenza del lavoro a partita iva. Vincono i contratti a tempo indeterminato: 51,8% all’estero, 27,6% in Italia.
Ciò che più indispettisce è che nessuno ne parla o se si affronta la questione, la si colora di esterofilia “giovanile”. Un po’ come il desiderio americano degli anni settanta. Questo è invece un trend diverso perché non affonda le sue radici nel sogno di frontiere “altre”, ma semmai nel bisogno di evasione dal precariato, dall’impossibilità di progettare un futuro stabile nel proprio Paese.
Si parla di fuga dei cervelli con numeri crescenti anno dopo anno. Erano più di 50 mila i giovani (15-34 anni) andati via soltanto nel 2019, alla vigilia della pandemia, 250mila nel decennio 2009-2018. Una perdita di capitale umano, ma anche di capitale sociale impressionante, se si considera che a partire sono, mediamente, i più intraprendenti, ambiziosi, determinati, animati da un forte spirito d’innovazione e di voglia di scoperta.
Il Pnrr, secondo le indicazioni del Recovery Plan Next Generation Ue, punta a dare risposte concrete. Ma è una sfida aperta. Per le nuove generazioni c’è ancora un catalogo di buone intenzioni. La pandemia, con i due anni di rallentamento della vita economica e civile, e adesso, nel cuore della ripresa, i guasti provocati dall’invasione russa e dalla guerra in Ucraina, aggravano il quadro delle difficoltà per le nuove generazioni e ne incrinano sicurezza e fiducia. Torniamo, così, al bisogno di buona politica. Lavoro, formazione, redditi, qualità della vita sono gli obiettivi principali. Per non bruciare le possibilità di un’intera nuova generazione servono tre punti certi.
Un primo punto è che c’è sempre sofferenza quando si decide di abbandonare l’Italia. Se ne deduce che le motivazioni che spingono le nuove generazioni a partire debbano essere così forti da vincere la resistenza esercitata dall’amore per il rimanere nel nostro Paese. Chi parte, quindi, lo fa con la tristezza e la certezza di non avere altra alternativa.
Un secondo punto è che la metà degli emigranti sceglie Paesi europei dove la prima occupazione post laurea è pagata di più che in Italia.
O meglio, la prima occupazione post laurea in Italia, dopo un lungo percorso di studi, non permette di raggiungere quell’autonomia finanziaria tanto desiderata che consentirebbe di staccarsi dall’assistenzialismo della propria famiglia.
Un terzo punto certo è che nei Paesi che riescono a sottrarci il maggior numero di giovani (UK e Germania) non esiste il concetto di contratto a tempo indeterminato come lo conosciamo qui. Ogni assunzione può essere sempre rimessa in discussione dal datore di lavoro se le performance delle persone assunte non fossero in linea con i desiderata o se, nel frattempo, le condizioni di mercato obbligassero l’azienda a scelte drastiche.
Le differenze vere quindi tra Italia ed estero? Condizioni e regole di mercato. Il fenomeno, quindi, merita urgentemente un approfondimento scientifico istituzionale. Solo studiando a fondo il problema possiamo poi cercare di ideare e sperimentare soluzioni per invertire la tendenza.
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