Napolitano, «il garante di tutti gli italiani»
Era il 2005 e durante il funerale di un collega parlamentare lo scorsi all’ultimo banco, era pesantemente appoggiato alla sua fedele compagna di una vita, Clio Maria Bittoni, mi apparve così invecchiato che non ebbi il coraggio di andarlo a salutare. Pochi mesi dopo, il 10 maggio 2006, Giorgio Napolitano accettava, con scrupoloso e cosciente senso di responsabilità, l’elezione a presidente della Repubblica, l’undicesimo della storia democratica italiana. Da quel momento sarebbe stato, ancora per molti anni, protagonista della vita istituzionale del nostro Paese, 8 come presidente e poi altri 10 come attivo senatore a vita.
Cito questo fatto, perché mi pare sia significativo di che tipo d’uomo fosse Giorgio Napolitano: la sua unica ragione di vita, la sua molla vitale, era la politica, vissuta come partecipazione attiva alla vita delle istituzioni democratiche.
In una interessante, lunga intervista rilasciata nel 2013 ad Eugenio Scalfari, longevo direttore di Repubblica, Napolitano spiega che sin da quando nel ‘53 a 28 anni fu eletto alla Camera dei Deputati, sentì il dovere di impegnarsi a fondo nella vita parlamentare. Tanti suoi compagni del Partito Comunista Italiano preferirono la militanza nell’organizzazione di partito, lui, invece, volle “immergersi” – questa la parola usata da lui stesso – nella vita parlamentare, lavorando nella commissione finanze e bilancio dove era stato assegnato, studiando e partecipando in un percorso istituzionale che formò in lui un senso profondo della necessità di istituzioni solide per rendere solida la democrazia.
«Sarò il garante di tutti gli italiani», fu la sua prima dichiarazione da presidente della Repubblica e così lo abbiamo sentito nel suo lungo mandato, sia quando esultava per le vittorie della nazionale, sia quando si assumeva il difficile compito di spingere il Parlamento, congelato da veti reciproci, ad approvare riforme “utili”, fuori dal metodo, usato a destra come a sinistra, di approvare disegni dettati solo da interessi di parte.
L’apice di questa sua vocazione si espresse però nel 2013, quando in una difficilissima congiuntura economica e politica, chiamato da un ampio schieramento in un Parlamento incapace di decisioni, accettò il secondo mandato da presidente. Lui stesso spiegò il perché dell’abbandono della sua ferma volontà di ritirarsi per sopravvenuti limiti di età usando una parola non comune, precisò che non lo fece per “albagia” – presunzione che deriva da una considerazione troppo alta di sé -, ma per senso di dovere verso le istituzioni «per salvaguardare quella continuità istituzionale che potesse assicurare una stabilità politica». Fu il necessario ponte per superare quella stretta.
Nel ‘45, da poco laureato, decise di aderire al Partito Comunista “non per una scelta ideologica”: questo timbro di appartenenza non gli fu mai consono e spesso ne pagò le conseguenze. Nella sua disastrata Napoli del dopoguerra, scelse quell’opzione politica per “un impulso morale”, perché quella era la forza più “mescolata al popolo” e che più aveva dimostrato avversione alla dittatura fascista. In quel partito si trovò sempre in minoranza, più volte vicino ad essere eletto segretario, ma mai ritenuto del tutto affidabile: troppo europeista, troppo filo-americano. Mai accettò l’ideologia della rivoluzione internazionalista per accompagnare il riscatto della classe operaia, lavorò per un dialogo con le altre forze politiche per una via “riformista”, nome per altro della corrente a cui apparteneva.
Fu il primo comunista chiamato ufficialmente negli Usa, Paese che aveva cominciato a conoscere nella sua gioventù, quando come suo primo lavoro si trovò a Napoli a collaborare con la Red Cross in un campo a servizio dell’esercito statunitense impegnato nelle operazioni belliche.
Nella mia vita parlamentare mi capitò spesso di sperimentare in prima persona la sua apertura alle novità e la sua capacità di mediazione. Allora era d’uso affidare la presidenza dell’Aula alle minoranze, per significare l’unità istituzionale dei luoghi democratici comuni, e così fu eletto presidente. Ho ricordato ancora sulla rivista Città Nuova un paio di circostanze che descrivono il suo modo di condurre l’Aula, ricordarli oggi mi sembra un modo di onorare la sua memoria.
Era il ‘94, poco prima delle elezioni, alcuni parlamentari democristiani avevano avanzato l’idea di presentare una mozione per impegnare il governo sulla tutela dell’embrione. Al di là della materia, assai importante, vi era chiaramente, da parte di alcuni, il tentativo di distinguere, per così dire, davanti agli elettori, i parlamentari tra “buoni” e “cattivi”. Con alcuni amici di partito, primo tra tutti Carlo Casini, decidemmo di mettere a frutto tutti i numerosi rapporti che avevamo costruito in quegli anni. Se la vita di un embrione era un valore radicato profondamente dentro la coscienza di ogni uomo, ben sopra gli schieramenti, potevamo trovare il modo di unire tutti attorno a questo valore. Ci serviva però tempo, almeno 12 ore per una trattativa non strozzata. Andai a chiedere al presidente, con cui era maturato un rapporto di reciproca stima. Lui assentì e rese possibile l’inversione dell’ordine del giorno, questo ci permise di lavorare fino a tarda sera, cercando con tutti i partiti dell’emiciclo un aggancio, una motivazione valida per arrivare ad una posizione unitaria sul valore della vita. Alla fine riuscimmo a trovare l’unanimità intorno ad un documento che venne approvato all’unanimità. Napolitano sottolineò la positività del risultato unanime: temi così delicati non meritavano, nemmeno in campagna elettorale, divisioni ideologizzate.
Stessa legislatura, stesso tentativo di avere un consenso unanime: l’argomento era la copertura sanitaria per le persone extracomunitarie. Cominciava già allora un serrato confronto sull’argomento tra diritti e sicurezza. Lui, il presidente, si allea con noi, siamo un gruppetto di deputati della maggioranza ed alcuni dell’opposizione e ci suggerisce il modo migliore di sfruttare tutte le possibilità del regolamento, aiutandoci a raggiungere il risultato.
Nella sua lunga vita ebbe la capacità di riconoscere i propri errori e farne pubblica ammenda. Riconobbe più volte pubblicamente di non aver avuto, a suo tempo, il coraggio di condannare la politica dittatoriale di Stalin, a cominciare dalla repressione in Ungheria del ‘56, preso da un senso di disciplina verso il partito, in cui contava più l’ortodossia che la capacità di leggere i fatti con sguardo libero.
Da presidente della Camera come da presidente della Repubblica incitò sempre allo sforzo di “concordare” ed abitare coraggiosamente un terreno comune quando si lavora alle regole e alle riforme superando gli sguardi gretti e corti degli egoismi di parte che impediscono il futuro alla democrazia.
Mi pare che l’eredità politica che questo personaggio ci consegna e che anche oggi può essere utile, possa essere condensata proprio in queste due caratteristiche: il rigore morale e il dovere del dialogo quando si lavora alle regole della casa comune.
Un altro grande vecchio della prima Repubblica se n’è andato, a noi il testimone, ripetendo il coraggio della sua scelta di vita. Da figlio di una borghesia agiata, con la possibilità di un posto assicurato nello studio avviato di papà, volle abitare un impegno diverso, vicino a quel popolo che si trovava nelle condizioni tragiche del dopoguerra nella sua città.
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