Nagorno Karabakh, l’ennesima fiammata

Ogni due o tre anni, l’enclave a maggioranza armena in territorio azero conosce recrudescenze di un conflitto mai veramente sedato
Nagorno

Recentemente mi sono recato in Angola, dove ho costatato coi miei occhi la mancanza di una vera riconciliazione dopo la lunghissima guerra civile che ha opposto due fazioni della popolazione con risvolti politici, economici ed etnici, una guerra durata 27 anni e conclusasi nel 2002. E così in Palestina, in Libano, in Myanmar e ora anche in Nagorno Karabakh, quando non viene avviato un serio piano di riconciliazione nazionale dopo una guerra civile (e spesso e volentieri incivile) la convivenza non è mai “risolta”, e sotto la cenere degli accordi di circostanza cova un incendio mai domato.

Ma, per avviare una vera riconciliazione – talvolta via addirittura al perdono – bisogna che le parti in conflitto abbiano una vera volontà di ripartenza, ponendo prima degli interessi di parte quelli della nazione, o in ogni caso della cittadinanza che convive. Per fare un esempio, gli accordi di Minsk del 2014 e del 2015, tra governo ucraino e insorti filorussi del Donbass, non contando su una reale volontà delle parti di riconciliarsi, non sono mai stati dei veri trattati con una qualche possibilità di essere attuati. I fatti lo hanno dimostrato.

Dopo qualche anno appena di tregua – accordo firmato il 10 novembre 2020 con la supervisione di Mosca, in piena pandemia –, è ora riesploso il conflitto che in Nagorno Karabakh oppone armeni e azeri, in una guerra guerreggiata esplosa all’indomani del “tana libera tutti” seguito alla caduta del Muro di Berlino. Dal 1988, si contano almeno una ventina di nuove tensioni belliche nella piccola enclave a maggioranza armena in territorio azero, legata a lungo alla madre patria da una sottile striscia di terra – sostanzialmente una strada asfaltata – che viene interrotta a ogni nuovo aumento della tensione, quando le armi riprendono un ruolo primario nella contesa.

L’ultima ripresa dei combattimenti è forse dovuta al conflitto ucraino, perché l’Armenia, alleata di Mosca, da qualche tempo non riceve più supporto militare da parte di Mosca, mentre Baku è aiutata da Ankara con armi di vario genere, in particolare droni. La maggioranza armena ha quindi perso la supremazia nel Nagorno Karabakh, acquisita sul campo. Fatto sta che gli azeri non hanno mancato di approfittare dell’occasione propizia per riconquistare quanto perduto nelle ultime vicende belliche.

Ero stato nel 2004 in quella piccola enclave, allora saldamente (più o meno) in mano armena, ed avevo incontrato una serie di esponenti del mondo politico ed associativo, tra cui il presidente stesso. Mi ero fatto un’idea chiara: armeni e azeri avevano convissuto pacificamente (più o meno) nel periodo sovietico, nel quale il regime aveva rimescolato le carte, come d’altronde aveva fatto in tutta l’Asia Centrale, riequilibrando le percentuali etniche della popolazione, in quel caso immettendo sangue azero nella regione allora con una buona maggioranza armena. L’innesto era riuscito a metà, nel senso che la convivenza pacifica veniva assicurata militarmente dal regime comunista, ma i cuori erano rimasti divisi, se possibile con una ulteriore crescita del reciproco astio. Nulla di nuovo sotto il sole.

E ora che succederà? Dopo scontri armati che hanno fatto circa duecento morti (dieci civili), e dopo un repentino cessate il fuoco imposto da Mosca, firmato nella città azera di Yevlakh – i legami tra azeri e russi non sono ancora del tutto interrotti, anche per la presenza di centinaia di migliaia di russi o russofoni a Baku e nell’intero Paese – gli incidenti sono scoppiati di nuovo, secondo un copione conosciutissimo nella zona: gli accordi valgono solo nel tempo dell’equilibrio delle forze.

I prossimi giorni saranno decisivi per capire in che modo e in che misura Mosca riuscirà a calmare le acque, magari con un intervento congiunto Putin-Erdogan, sapendo però che Mosca non potrà contare sull’apporto del Patriarcato di Mosca e della Chiesa armeno-apostolica di Yerevan, che sono ai ferri corti, mentre i musulmani legati alla presidenza azera sono schierati con il presidente Alyev e soci.

Tutto ciò mentre in Armenia il nazionalismo minaccia da vicino il governo attuale guidato da Pashinyan, accusato dalla popolazione di arrendevolezza eccessiva nei confronti dell’alleato russo, ormai ex-alleato. Gli armeni, delusi da Mosca, stanno chiedendo all’Unione europea di intervenire con una forza di interposizione, assai difficile in ogni caso da mettere in piedi, anche per evitare una nuova ondata di profughi, questa volta armeni. Si parla di circa 20-30 mila persone, che sarebbero in procinto di lasciare Stepanakert e il Nagorno Karabakh, che complessivamente ha una popolazione di 150 mila abitanti, dei quali 100 mila ormai azeri.

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