21 grammi
Paul è un cardiopatico all’ultimo stadio in attesa del trapianto che potrebbe salvargli la vita. Il cuore arriva appena in tempo e l’uomo, appena può, si mette sulle tracce del donatore. Christine è una donna felice, ma un giorno il marito e le due figlie muoiono investiti da un pirata della strada. Si rifugia allora nella solitudine della droga, fino a quando un misterioso uomo farà l’ingresso nella sua vita. Jack è religiosissimo, ma ha un passato da criminale e alcolizzato. Riga dritto, lavora, non beve, ma alla guida della sua auto investe tre persone uccidendole. Tre storie che si intrecciano tragicamente, unendo i destini delle persone coinvolte in un abisso di dolore, paura e rimorso da cui ognuno uscirà seguendo la propria strada. 21 grammi – che per inciso è il peso che si presume abbia l’anima – sarebbe stato un comune melodramma che non avrebbe detto nulla di nuovo se Iñárritu non lo avesse rielaborato utilizzando il suo consueto stile narrativo, frammentando, cioè le storie in tanti pezzi e rimontandoli poi in un ordine apparentemente casuale. Il risultato è una narrazione che procede in tutte le direzioni, alternando scene delle varie storie in momenti diversi e rovesciando spesso e volentieri il nesso causaeffetto. Un’operazione affascinante e intrigante, certo, ma dagli esiti contraddittori, soprattutto perché il meccanismo funziona bene fino a quando lo spettatore deve far ricorso a tutta la sua attenzione per ricostruire la storia come si fa con un puzzle, ma via via che le tessere finiscono al loro posto, il gioco perde di interesse, la storia di intensità e il film si fa più banale. Eppure questo contrasto tra il cerebralismo della messa in scena e la drammaticità di storia e personaggi ha un suo innegabile fascino che il calo nel finale intacca solo in parte. Vale a dire che, fortunatamente, il sacrificio del contenuto alla forma non è totale e rimangono, quindi, sufficienti spazi all’innegabile talento del regista e a un cast di ottimi attori per mettere in scena un melodramma moderno, cupo e disperato, intriso da un pessimismo di fondo solo in parte riscattato dall’accenno di speranza del finale. Si può dire che Iñárritu ha tentato di fare con il melodramma quello che Tarantino, con più fortuna, è riuscito a fare con i gangster movie. E se è vero che qui la materia era più ostica da trattare, allo stesso modo si deve ammettere che forse, proprio per questo, bisognava osare un po’ di più. Regia di Alejandro González Iñárritu; con Sean Penn, Danny Huston, Benicio Del Toro, Naomi Watts, Charlotte Gainsbourg. Cristiano Casagni