La Costituzione e la legge 185 del 1990

Ad un passo dalla modifica decisiva della legge che vieta di esportare armi nei Paesi in guerra
Pace e Costituzione Foto LaPresse - Roberto Settonce

Esiste in Italia qualcuno che ha preso sul serio il discorso dell’autorevole giurista Piero Calamandrei ai giovani studenti milanesi nel 1954: «La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove: perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile; bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità. Per questo una delle offese che si fanno alla Costituzione è l’indifferenza alla politica».

Concetti che alcuni hanno seguito alla lettera come ad esempio Elio Pagani, lavoratore dell’Aermacchi, che dopo aver ascoltato la testimonianze dirette sul Sudafrica razzista decise negli anni 80 di fare obiezione di coscienza alla produzione di armi destinate ad alimentare il regime dell’apartheid. Si deve a persone come a Pagani e amici l’applicazione della Costituzione che si è realizzata con la legge 185 del 1990 che non solo pone dei limiti all’esportazione di sistemi d’arma verso Paesi in guerra e/o che violano i diritti umani, ma prevede un fondo per sostenere la riconversione delle aziende di armi. Di fatto un tale finanziamento strategico non è mai partito per mancanza di reale volontà politica, ma è rimasto in piedi un sistema di controllo e autorizzazione ad esportazioni e importazioni esercitato dall’Autorità nazionale Uama (Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento) collocato all’interno del Ministero degli Esteri.

Scheda Sipri

Alle Camere deve arrivare, inoltre, un rapporto periodico sul flusso di armi prodotte e inviate nei diversi Paesi, anche se i dati consegnati ai parlamentari sono stati, negli anni, sempre più complicati da interpretare mentre la stessa legge 185 ha previsto delle eccezioni all’invio di armi in presenza di accordi politico militari con i singoli Paesi (50 in base all’ultima relazione del 2022).

Pur in presenza di tali stratagemmi la norma del 1990 ha avuto degli effetti concreti come avvenuto recentemente quando, grazie all’impegno di una parte della società civile, un voto del parlamento ha portato il governo Conte 1 e poi il Conte 2 ( di diverso colore) a sospendere, nel 2019, e poi revocare, nel 2020, l’autorizzazione di missili e bombe prodotti dalla società Rwm Italia (controllata dalla tedesca  Rehinmetall Defence) con destinazione Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita per il loro coinvolgimento diretto della coalizione guidata dai sauditi nella guerra in Yemen.

È ovviamente molto rischioso incrinare i rapporti con due  Paesi che rientrano tra i maggiori acquirenti di armi nonché promotori delle maggiori fiere internazionali che attirano le industrie del settore. Due petromonarchie che possiedono ingenti capitali da investire all’estero per accreditarsi sul piano mondiale.

Il blocco all’invio di bombe verso gli Eau è stato revocato nel 2022 dopo il disimpegno degli emiratini nel conflitto in Yemen, ma anche dopo l’estromissione dei militari italiani dalla base di Al – Minhad usata logisticamente per raggiungere Afghanistan, Iraq e Corno D’Africa.

(AP Photo/Amr Nabil)

Arriviamo così al comunicato del 31 maggio 2023 della presidenza del consiglio che, dopo aver esposto le misure a favore del made in Italy, annuncia la revoca da parte del governo Meloni dello stop all’invio di bombe e missili verso l’Arabia Saudita. Il presupposto implicito è il protagonismo crescente della Cina che è riuscita a far dialogare Iran con i sovrani sauditi agevolando l’apertura di trattative per il cessate il fuoco.

Uno spiraglio che, secondo Palazzo Chigi, fa prevedere «un’attenuazione significativa del rischio di uso improprio di bombe d’aereo e missili, in particolare contro obiettivi civili». Non siamo, quindi, davanti alla fine del conflitto ma ad una riduzione del “rischio di uso improprio” di bombe in una guerra che ha già provocato, secondo la denuncia di Amnesty International, 300 mila morti e 4 milioni di sfollati.

E non bisogna dimenticare, inoltre, le violazioni dei diritti umani in Arabia saudita come testimonia la recente denuncia di Human Right now  sulla strage di migranti etiopi respinti dalle guardie saudite poste al confine con lo Yemen.

La produzione e commercio di armi delle grandi società internazionali sconta lo strano pregiudizio di molti media che l’hanno, finora, considerata una materia marginale o per esperti. Tranne, poi, balzare al centro dell’attenzione dopo l’aggressione russa all’Ucraina e il flusso di grandi volumi di sistemi sempre più letali, fino alla fornitura, anche da parte occidentale, di armi all’uranio impoverito e di bombe a grappolo.

In piena estate un ennesimo comunicato del governo del 3 agosto ha annunciato la presentazione di un disegno di legge che punta a cambiare la legge 185 del 1990 per «eliminare alcune incertezze interpretative». Una descrizione che preoccupa i difensori di una legge considerata un ostacolo dai grandi produttori armi e che necessita perciò di un vasto e approfondito dibattito pubblico per capire la direzione cosciente del nostro Paese nella fedeltà alla Costituzione.

 

Una legge sotto attacco

 

Come spiega il dossier del servizio studi della Camera, «La legge n. 185 del 1990 vieta l’autorizzazione ad effettuare le movimentazioni di prodotti per la difesa quando queste contrastino con il principio della Costituzione italiana che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; con gli impegni internazionali dell’Italia, tra i quali gli accordi concernenti la non proliferazione; con i fondamentali interessi della sicurezza dello Stato, della lotta contro il terrorismo e del mantenimento di buone relazioni con altri Paesi. I divieti si applicano inoltre quando mancano adeguate garanzie sulla definitiva destinazione dei prodotti per la difesa, ovvero sussistono elementi per ritenere che il destinatario previsto utilizzi gli stessi prodotti a fini di aggressione contro un altro Paese».

La normativa nata dal forte impegno della società civile è stata considerata più volte da molti critici come un freno ad un’attività industriale chiamata ad operare in un contesto internazionale fortemente competitivo «non solo tra avversari ma pure tra alleati» come fa notare Pietro Batacchi, direttore della Rivista italiana di Difesa. Parliamo di attori «spregiudicati ed emergenti» che non hanno remore di carattere etico.

La necessità di una modifica della legge 185 del 90 è stata al centro della riunione dell’Associazione di Confindustria delle aziende della difesa e dello spazio (Aiad) che si è tenuta il 3 luglio 2023 presso il Centro alti studi della Difesa (Casd) diretto dall’ammiraglio Giacinto Ottaviani.

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