2007, una tela da tessere
Sulla scena internazionale l’anno che si apre vedrà il convergere e l’intrecciarsi di molteplici situazioni critiche, la cui chiave ancora una volta si trova in Medio Oriente. Si prospettano scadenze e nodi politici che in molti casi saranno decisivi non solo per la regione mediorientale, ma per gli equilibri internazionali più ampi e per la pace mondiale. Mai come in questo momento infatti dal Medio Oriente di dipartodi no, come dopo il lancio di una pietra in uno stagno, cerchi concentrici che coinvolgono altre regioni, a cominciare dall’Europa e degli Stati Uniti, senza trascurare effetti di più lunga portata che investono l’Asia e perfino l’Africa. Al centro di questa complessa geometria di cerchi concentrici vi sono i quattro teatri di conflitto o di tensioni nel cosiddetto Medio Oriente allargato: questione israelo-palestinese, futuro dell’Iraq, crisi politica in Libano, destino della fragile democrazia in Afghanistan. Tutti sono legati, più o meno indirettamente, a impegni e interventi di stabilizzazione della comunità internazionale che hanno fatto registrare alterne vicende. Il confronto tra Israele e Autorità Palestinese si trova, ancora una volta, sul confine incerto tra il baratro e l’avvio di una situazione sostenibile e accettabile per tutti. In questo momento la palla è tornata nel campo palestinese. Dopo i tentativi, sinora senza esito, del presidente Abu Mazen di formare un governo di unità nazionale che comprenda Hamas, nei Territori Palestinesi potrebbero tenersi entro giugno 2007 nuove elezioni presidenziali e politiche. Il condizionale è d’obbligo, poiché la strategia di Abu Mazen potrebbe essere anche quella di agitare la prospettiva delle elezioni come strumento di pressione per convincere Hamas ad abbandonare le sue posizioni estremistiche e ad accettare le condizioni poste dalla comunità internazionale per la formazione di un governo credibile: rinunciare alla violenza, rispettare i trattati precedentemente conclusi dall’Olp, riconoscere senza ambiguità il diritto all’esistenza di Israele. In ogni caso, il tentativo di Abu Mazen di sbloccare lo stallo politico tra le forze palestinesi appare coraggioso. La novità è che ora questo coraggio viene apertamente riconosciuto anche da parte di Israele. In un importante discorso tenuto il 27 novembre, il premier israeliano Olmert ha fatto alcune significative aperture, tendendo in sostanza la mano ad Abu Mazen pur con la prudenza e la circospezione del caso. Tuttavia, in questo momento si ha l’impressione di essere dinanzi a due debolezze: a quella di Abu Mazen si unisce quella dello stesso Olmert, dopo l’azzardo infelice della prova di forza militare contro Hezbollah, che per la prima volta ha mostrato i limiti delle azioni unilaterali israeliane. In Iraq si è ormai in una situazione drammatica, rilevata anche dal rapporto presentato a Bush da Baker e Hamilton. Nel rapporto in sostanza si prende atto del vicolo cieco della soluzione militare e si invita la Amministrazione americana a mettere in campo nuove iniziative sul piano regionale, coinvolgendo tutti le nazioni vicine nello sforzo di stabilizzazione del Paese, inclusi Iran e Siria. Una proposta, questa, che ha fatto storcere il naso a molti esponenti della Amministrazione Bush, che si trova tuttavia in grande difficoltà sul piano del consenso interno, che si è materializzata nella clamorosa vittoria dei democratici alle elezioni di mezzo termine. Iran e Siria entrano poi in gioco come attori sotterranei (ma neanche tanto) nella intricata situazione politica interna libanese. È noto che gli Hezbollah, che godono di potenti appoggi e protezione a Damasco e Teheran, tentano di far saltare gli equilibri al vertice politico per impedire, tra le altre cose, che la Siria venga messa sul banco degli imputati nell’ambito di un processo internazionale per indagare sull’omicidio dell’esponente politico Hariri e su altri crimini politici compiuti a Beirut. Si confrontano nelle piazze due movimenti politici contrapposti: quello dell’opposizione (detto dell’8 marzo) e quello della maggioranza parlamentare (detto del 15 marzo). Ora, se è vero che la legittimità dei governi si misura alle elezioni e non in base alla partecipazione alle manifestazioni di massa, è anche vero che i delicatissimi rapporti tra le diverse componenti del mosaico inter-etnico e interreligioso richiedono un consenso più ampio dei semplici meccanismi istituzionali. E il tentativo della Lega Araba, che svolge un ruolo di mediazione, di rendere compatibili le diverse esigenze ne è la riprova. Al premier Siniora va riconosciuta una notevole dose di sangue freddo e correttezza istituzionale. Basterà? Per l’Italia, che schiera 2.500 militari all’interno della missione Unifil II nel sud del Libano, quello che accade nei negoziati tra le varie formazioni politiche a Beirut non può ovviamente suonare né lontano, né irrilevante, tutt’altro. Dal canto suo, la Siria, per essere credibile, deve fare almeno tre cose per contribuire a riportare la stabilità nella regione mediorientale: cooperare alla pacificazione dell’Iraq, evitando di fomentare il terrorismo e permettere le infiltrazioni attraverso al sua frontiera; contribuire ad un accordo in Palestina per dare vita ad un governo di unità nazionale, evitando di alimentare le correnti estremistiche (come Hamas); rispettare la sovranità del Libano e cooperare per la nascita del già menzionato Tribunale internazionale per il caso Hariri. Su questi fatti concreti si giudicherà la proclamata volontà di Damasco di cooperare fattivamente con la comunità internazionale. Il quarto scenario, un po’ decentrato rispetto al Medio Oriente inteso in senso tradizionale, è l’Afghanistan. Inutile negarlo: dopo l’intervento americano nel 2001, la situazione è cambiata politicamente (per fortuna, non ci sono più i talebani al potere), ma ben poco sotto il profilo socio- economico e nel campo della sicurezza. La stessa missione della Nato e dell’Onu si interroga sulla necessità di cambiare passo, e di puntare assai più sugli aspetti politici e di sviluppo rispetto a quelli militari. Come nel caso dell’Iraq, anche in Afghanistan il ruolo dei vicini può essere determinante. E un vicino importante dell’Afghanistan, oltre al Pakistan, è l’Iran. Su Teheran pende la spada di Damocle di possibili sanzioni che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite potrebbe comminare in relazione alle troppe e pericolose ambiguità del programma nucleare iraniano. Teheran è quindi sotto osservazione, ma al tempo stesso la sua posizione politica nella regione è in netta ascesa dopo la conquista da parte degli sciiti di un ruolo di primo piano in Iraq, a seguito della vittoria di Hezbollah nella guerriglia con le forze israeliane e dopo che Hamas ha conquistato una cospicua maggioranza relativa nel parlamento palestinese. Cresce, parallelamente, il pericolo di un confronto sempre più insidioso tra sunniti e sciiti in tutto il mondo arabo. Insomma, lo si voglia o no, con l’Iran occorrerà fare i conti. I fili di questo complesso scenario toccano le Nazioni unite, gli Stati Uniti, l’Europa e a loro volta si intrecciano con grandi questioni globali, come il dialogo tra Occidente ed Islam, la questione della diffusione della democrazia, il pericolo costituito dalle armi di distruzioni di massa e dal terrorismo. Ecco come, secondo una complessa regola di trasformazione, si può passare da una questione apparentemente locale (ad esempio, la situazione umanitaria nella striscia di Gaza) ad un problema globale prioritario. E il compito di una comunità internazionale che si rispetti, finita anzitempo l’epoca effimera dell’unilateralismo americano, è proprio quello di tessere, con questi fili, una tela di pace, forte e resistente.