20 anni dai missili sulla Serbia
All’ospedale c’è gran folla. Passano soldati feriti o mutilati. Le medicine bisogna procurarsele da soli. Qualche angelo appare qua e là, lavora per quattro, ha una parola di conforto per tutti. Un militare mormora: «Quattro giorni e quattro notti a fare il macellaio». Vorrei parlargli, ma se ne va trascinandosi nella sua carrozzella. In una stanza sono stipati 9 pazienti, uomini e donne. Agata Jovanovic, 42 anni ma ne dimostra 10 di più, ci mostra senza pudore il moncherino della sua gamba destra. Quella sinistra è sostenuta da orribili putrelle metalliche avvitate alla carne. «Nei primi giorni di guerra – ci racconta – mi recavo al lavoro. D’improvviso un boato, una vampata di calore. Riesco a cacciarmi sotto una camionetta, per fortuna. Ma lascio fuori una gamba. Passato l’allarme afferro i pantaloni… e mi resta in mano la gamba. Cinque persone sono morte per errore». Ora cerca una protesi tedesca per potersi occupare del suo piccolo di 6 anni. Piange, Agata: «Non ce l’ho con nessuno, nemmeno col pilota che ha sganciato la bomba. Mi aggrappo alla speranza di vita che è mio figlio». Di fronte a lei un ragazzo mutilato: «Tu non hai la gamba destra – le dice –, io la sinistra. Insieme ce la faremo».
Così scrivevo nella primavera del 1999, da Niš, l’antica Naisos, dal meridione della Repubblica Federale di Jugoslavia di Slobodan Milošević, bombardata dalla coalizione riunita dalla Nato (c’erano anche Italia, Francia, Germania e Regno Unito, assieme agli Stati Uniti e ad 8 altri Paesi) per l’Operazione Allied Force. La campagna di attacchi missilistici e aerei aveva il fine di costringere il regime di Belgrado a sedersi al tavolo delle trattative e contrastare così il progetto, presunto, di spartizione del Kosovo tra serbi e albanesi. Si trattava della prima azione della Nato contro uno Stato indipendente. Era il 24 marzo 1999, esattamente 20 anni fa, quando si fece silenzio sull’Adriatico, interrotto solo dal rombo dei motori dei caccia partiti per colpire i sobborghi di Belgrado, i ponti in tutto il Paese, gli aeroporti kosovari e le postazioni dei missili Sam di fabbricazione russa. Complessivamente mille aerei furono impiegati e 30 navi da guerra e sottomarini, mentre da parte serba, a parte qualche decina di Mig e Soko, furono schierate le truppe di terra, circa 250 mila uomini. Perdite: una cinquantina di velivoli da parte degli Alleati, compresi gli antesignani dei droni, 2 morti, tre prigionieri; un migliaio di morti militari e tra 500 e 600 civili, gravi perdite militari ma nemmeno troppo estese da parte jugoslava.
Si era parlato di una “guerra umanitaria” per difendere le popolazioni kosovaro-albanesi minacciate dall’intervento serbo, così come di una “guerra chirurgica”, cioè fatta per risparmiare al massimo le vite umane, soprattutto dei civili. Nei fatti la guerra non è stata né umanitaria né chirurgica: non è stata umanitaria perché ciò non ha impedito ingenti perdite civili, anche se certamente minori di quanto sarebbe successo se fosse stata avviata una campagna di terra contro i serbi in Kosovo; mentre gli innumerevoli errori di mira degli attaccanti hanno dimostrato che di chirurgico c’era solo l’idea, perché dall’alto – e gli aerei alleati volavano molto in alto per evitare la contraerea – la mira non è facile, anche se la guerra è servita per sperimentare le prime armi veramente digitali della storia dei conflitti bellici.
Ancora il reportage del 1999: Passeggio nel centro della capitale sventrato dai missili Nato. Colpi di mannaia di un boia gigantesco e invisibile: tondini di ferro sorreggono monconi di cemento. Le ambasciate occidentali saccheggiate sono ricoperte di scritte ingiuriose: nazismo ed escrementi. Pratiche burocratiche in cirillico svolazzano qua e là. Un poliziotto imberbe mi coglie mentre fotografo: riesco a farla franca. Un passante mi racconta una barzelletta, ne circolano un’infinità: «Gli americani sono stupidi. Con un missile da un milione di dollari al massimo fanno una decina di morti. Se gettassero appena mille dollari nelle strade di Belgrado, la zuffa che ne nascerebbe provocherebbe molte più vittime». E intanto Beo-grad (“bella” città) diventa Bio-grad (“era” città). L’umorismo stempera la frustrazione.
Risultati: se è stato imposto a Milošević di rispettare il Trattato di Rambouillet, e quindi l’indipendenza di fatto del Kosovo, poi dichiarata e riconosciuta internazionalmente solo dal 2008 in poi, non si è evitato né la morte di civili, in particolare musulmani di etnia albanese in Kosovo, né il flusso del milione di migranti dal Kosovo verso Albania e Macedonia prima, e poi verso la Serbia. La “guerra umanitaria” in realtà è risultata una “guerra di ingerenza umanitaria”, che ha portato alla consegna di Milošević il 28 giugno 2001 al Tribunale internazionale per l’ex-Jugoslavia. L’inaffidabile diplomazia serbo-jugoslava ha certamente provocato l’intervento della Nato, sul cui risultato però non c’è assolutamente unanimità di giudizio. C’è infatti chi reputa impossibile parlare di “guerra di ingerenza umanitaria”, perché la guerra è sempre guerra e falcidia uomini e donne e provoca migrazioni e paure, mentre c’è anche chi sostiene che in questo modo si è evitato il male peggiore di una guerra sul campo che avrebbe fatto danni ben maggiori, impedendo la reiterazione di quelle guerre etniche nei Balcani che negli anni Novanta avevano fatto 250 mila morti. In ogni caso l’unanimità del giudizio è raggiunta sull’idea che la “guerra del Kosovo” abbia segnato una sconfitta della diplomazia internazionale.
Di nuovo una nota del racconto del 1999: Tornando da Niš, l’autostrada è interrotta di nuovo. Usciamo a un tiro di schioppo dal Monastero di Ravanica, eretto dal principe Lazzaro, il più popolare monarca della Serbia medievale, che trovò la morte – guarda caso – nella terribile battaglia di Kosovo Polje, che aprì la strada ai musulmani. È sepolto qui. La travagliatissima storia del monastero è il riassunto dell’esperienza dell’intero popolo serbo. Nell’oscuro e affrescato nartece, un monaco intona tetre preghiere contro Satana. Due monache, prostrate a terra, sottolineano le invocazioni con stridule voci d’oltretomba. All’uscita l’uomo in nero, giovane ma austero, ci intrattiene: «Ormai i veri serbi si contano sulle dita della mano: o ci convertiamo, o dovremo ancora patire. Sono tutti ormai nelle mani di Satana: in Kosovo rubano, uccidono, stuprano, non rispettano i comandamenti». Cita l’Apocalisse a piene mani: «Dobbiamo tornare alla purezza di Cristo, convertirci, ritrovare la fede. La gente ha sofferto, ma invece di tornare a Dio cerca di dimenticare». Se ne va, rifiutando una foto. Avrei voluto mostrarvi quegli occhi profondi e terribili. Come quelli di un’icona.
Nel corso del reportage intervistai l’allora arcivescovo di Belgrado, Franc Perko. Gli chiesi: «A quando la vera pace nei Balcani?». Risposta: «Tra diecimila anni». Ribattei: «Diecimila, senza sconti?». Chiosa del prelato: «A meno che la provvidenza non intervenga. Questo lo spero e lo credo». Forse qualche intervento c’è stato da allora. Ingerenze umanitarie?