2 giugno, alle radici della Repubblica
La festa della Repubblica cade in questo anno 2020 alla vigilia della riapertura della libera circolazione interna tra le regioni italiane. Un fatto che segna il passaggio più emblematico di una progressiva, e si spera duratura, uscita dalla quarantena imposta dalla pandemia che continua mietere vittime, oltre alle 33.400 già conteggiate, e mettere in grave difficoltà la nostra economia già compromessa dalla crisi del 2008.
Nell’ora più buia e incerta, bandiere e canti dai balconi delle città hanno espresso un segno di resistenza comunitaria riconosciuto a livello mondiale. Il volto migliore del nostro Paese si è dimostrato nella dedizione estrema del mondo della cura, con le immagini di quelle persone in camice stremate dalla stanchezza, colte senza pudore nel piangere per tanto dolore, per le morti solitarie e la gioia contagiosa per ogni vita salvata. E, poi, la solidarietà immediata verso i troppi che sono rimasti senza risorse, poveri e impoveriti immediatamente con due mesi di stop improvviso.
Quel 2 giugno del 1946
Ora è il momento della verità. Come sempre, quando si è in pericolo, si fanno intenzioni di cambiare vita, di dire “niente più sarà come prima” e adesso, organizzando la ripartenza, necessita lo stesso sforzo “costituente” del 2 giugno del 1946. Il giorno delle elezioni dell’assemblea che scrisse la Costituzione del 1948 e del referendum istituzionale che segnò la rottura con il regime monarchico dei Savoia. La prima vera elezione a suffragio universale in Italia con la partecipazione delle donne.
Non si trattò di un passaggio indolore. Tanti italiani si ritenevano sinceramente legati alla “Corona”, il grido di guerra che annunciava l’inizio della battaglia era “Savoia!” così come resta “azzurra”, il colore della casa regnante, la fascia degli ufficiali e la maglia sportiva nazionale.
Il risultato del referendum repubblicano (54,3% contro il 45,7%) fu duramente contestato scatenando vere e proprie rivolte armate in alcune città. Grazie alla mediazione di Alcide De Gasperi si arrivò alla scelta saggia di Umberto II di andare in esilio in Portogallo. Era re da pochi giorni, dopo l’abdicazione del padre Vittorio Emanuele III, il sovrano che portò l’Italia nel primo conflitto mondiale, aprì le porte alla dittatura fascista, continuò una politica coloniale che gli valse l’appellativo di “imperatore” e condusse il nostro Paese all’alleanza con la Germania nazista fino alla promulgazione delle leggi razziali e la partecipazione nella seconda guerra mondiale.
Una svolta radicale
La promulgazione della Repubblica rappresentò, quindi, una svolta radicale. Non un semplice cambio di inquilino al Quirinale, il palazzo pontificio, grande 10 volte la Casa Bianca, scelto come residenza da Vittorio Emanuele II nel 1870. A questo sovrano, primo re d’Italia, è dedicato il Vittoriano, il mastodontico monumento bianco che contiene “l’altare della patria”, con tutte le sue simbologie allegoriche, la dea Roma, il colosso equestre, la vittoria alata, il sacello con i resti del povero soldato “ignoto” morto nella “grande guerra” del 1915-18 assieme ad altri 650 mila italiani mandati al fronte (560 mila le vittime civili, un milione i feriti e mutilati).
Quell’ “inutile strage” o “suicidio dell’Europa” come la definì Benedetto XV, è ancora assunta, in tanta storiografia ufficiale, come il mito fondativo della Nazione. E, così, anche la festa della Repubblica ha seguito, negli anni, la ritualità dell’omaggio all’altare della patria e al milite ignoto fino all’introduzione, nel 1950, della parata militare su quella via dei fori (imperiali) costruita per ragioni scenografiche dal regime mussoliniano abbattendo, così come avvenne per il Vittoriano, l’antico tessuto urbano.
Parata sospesa nel 1976 per il terremoto del Friuli, sostituita dal 1989 con una rievocazione storica ma reintrodotta nel 2000 dal presidente della Repubblica Azeglio Ciampi che si è distinto per la valorizzazione dei simboli nazionali. In tal senso l’ex governatore della Banca d’Italia ha voluto riportare al 2 giugno la festa che dal 1977 era stata spostata alla prima domenica del mese per ragioni economiche. Il 2 giugno, tra l’altro, è il giorno della morte di Giuseppe Garibaldi, ricorrenza significativa per la tradizione risorgimentale propria dell’allora presidente della Repubblica.
È comprensibile che, periodicamente, insorgano discussioni e polemiche sul modo più coerente per festeggiare la Repubblica democratica nata nel 1946. Con il tempo, per contenere i costi, sono stati sempre meno i mezzi corazzati schierati nella parata dove, da poco, sfilano anche la protezione civile, la croce rossa e altre rappresentanze non militari.
Non si tratta di disconoscere il ruolo importante delle forze armate di un Paese democratico che va distinto dall’ostentazione della potenza marziale appartenente ad altre epoche o a temibili e attuali regimi guerreschi.
Ad ogni modo ogni parata, con i passi cadenzati, le marce, le musiche, i tamburi e i canti è sempre un evento che può emozionare. Si pensi alla corsa dei bersaglieri o al canto dei dimonios della brigata Sassari (“Siamo la stirpe di quell’antica gente che al nemico fermava il cuore”).
Ci sono poi le frecce tricolori che è la pattuglia acrobatica di aerei da combattimento più numerosa al mondo, assunta come un simbolo nazionale tanto che il ministro della difesa Guerini ha avuto l’idea di farla esibire spargendo scie di fumo colorato nei cieli di molte città italiane in vista di questo 2 giugno senza cerimonie di massa a causa della pandemia.
Ma ci si può chiedere, nuovamente, se non sia opportuno trovare, altre modalità adeguate per rimettere al centro il patrimonio di valori espressi dalla Carta repubblicana. Una Costituzione conquistata duramente dopo un devastante conflitto mondiale che ha visto il nostro Paese in prima fila con la dichiarazione di guerra del 10 giugno del 1940, 80 anni fa, avvenuta proprio tra la folla esultante in quella piazza Venezia dove si affaccia il Vittoriano.
L’esempio di Brescia
La storia recente del nostro Paese è attraversata da continui tentativi di tornare ad un passato innominabile, come ha sottolineato, il 28 maggio, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ricordando la reazione civile esemplare della città di Brescia nel 1974 dove organizzazioni neofasciste, assieme ai servizi segreti deviati, usarono il tritolo contro una manifestazione sindacale in piazza della Loggia, lasciando sul terreno 8 morti e 102 feriti.
«L’unità con la quale i bresciani – ha detto Mattarella -reagirono all’attentato terroristico fu decisiva per spezzare la catena eversiva che, attraverso una scia di sangue e di morti innocenti lunga diversi anni, intendeva minare le fondamenta popolari della democrazia e colpire i principi costituzionali».
E proprio da questa città tra le più ferite dal contagio del virus (Mattarella ha parlato di «immane tragedia» dovuta al Covid 19) è emerso l’esempio profondo del «sacro dovere» del cittadino di difendere la patria (secondo l’art.52 della Costituzione) esercitato nelle zone più colpite d’Italia da migliaia di camici e tute bianche, da tanti lavoratori “invisibili”, in posizioni precarie, che hanno mantenuto in vita il Paese quando ci siamo sentiti isolati e abbandonati.
Davvero un momento straordinario per festeggiare la Repubblica tornando alle sue radici per poter affrontare le sfide di un futuro migliore dove “nulla potrà essere come prima”.