Troppe morti sul lavoro, occorre cambiare sistema

Andare alle radici delle cause di una tragedia che ci interroga. Dalla rivista Città Nuova, un contributo di analisi sempre attuale nella Giornata nazionale per le vittime degli incidenti sul lavoro.
La manifestazione contro le morti sul lavoro davanti al Ministero del Lavoro a via Veneto, Roma, 20 febbraio 2024. ANSA/RICCARDO ANTIMIANI

«La società non esiste, esistono solo gli individui». Un certo tipo di analisi comportamentale sulla sicurezza sul lavoro, la Behavior Analysis, è una sorta di proiezione di questa famosa frase di Margaret Thatcher, premier britannico degli anni ’80 del secolo scorso.

Secondo questa scuola di pensiero, veicolata dai più influenti uffici di consulenza aziendale, la causa principale degli infortuni sul lavoro sarebbe riconducibile ai comportamenti individuali delle persone. Nei testi “sacri” della Behavior Analysis si parla dell’80 per cento dei casi. Ma tra i consulenti e diffusori di questo credo, c’è chi si spinge addirittura al 99 per cento.

Quindi, secondo tale tesi, alla base del livello spaventoso di morti sul lavoro in Italia (e nel mondo) e di decessi per patologie di origine professionale (tumori, malattie respiratorie, malattie cardio-vascolari ecc.), ci sarebbero i comportamenti irresponsabili e/o errati dei lavoratori.  

È proprio così? Parto dalla mia esperienza in fabbrica e nei lunghi anni di cui mi sono occupato, da sindacalista, di salute e sicurezza sul lavoro. Ho il ricordo vivo della maggior parte degli infortuni mortali nell’industria siderurgica e metalmeccanica, che ho seguito per conto della Fim Cisl nazionale.  Obsolescenza degli impianti, macchinari e attrezzature non a norma o con le misure di sicurezza disattivate (per scelta aziendale) per produrre di più, cedimenti strutturali di gru, carrelli elevatori senza dispositivi di protezione, esposizione a sostanze tossico-nocive, esplosioni e incendi ecc..

Tutti fattori riconducibili ad aspetti tecnici e organizzativi più che a fattori umani. Per non parlare dei circa 3mila morti per anno dovuti all’amianto e a quelle causate da altre neoplasie o da malattie cardiache, dovute sempre a condizioni di lavoro, igieniche e ambientali non certo imputabili ai comportamenti degli individui.

Cosi come è sufficiente leggere le casistiche delle morti sul lavoro dell’estate 2022 per capire che il “fattore umano” è tra le cause e/o concause di alcuni incidenti, ma non ne è l’unico e tantomeno il principale. È il caso, ad esempio, dei numerosi decessi attribuiti al caldo eccessivo, associato a lavori pesanti e gravosi, che si sono verificati in edilizia, in agricoltura e in alcune fabbriche manifatturiere. Un rischio normalmente presente e ‘non eccezionale’ (accentuatosi negli ultimi anni per effetto dei cambiamenti climatici), spesso neppure considerato dai datori di lavoro nelle valutazioni dei rischi per la salute e sicurezza. Eppure esistono precisi obblighi per le aziende e un’ampia letteratura e innumerevoli soluzioni adottate sul campo tra rappresentanti dei lavoratori e direzioni aziendali per prevenire i rischi correlati al microclima e al lavoro ad alte temperature.

Sono spesso le condizioni irregolari e precarie del lavoro, che si traducono in una mancanza delle necessarie misure di prevenzione e protezione o all’uso di ponteggi, macchinari e attrezzature non conformi a: «l’esperienza e la tecnica, … necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro». Come recita l’attualissimo e sempre valido articolo 2087 del Codice Civile.

Nonostante le norme esistano da tempo (l’articolo 2087 è del 1942) e siano state migliorate con il recepimento delle direttive europee, stiamo assistendo negli ultimi anni – come le statistiche confermano – a un regresso preoccupante sia degli infortuni mortali e invalidanti sul lavoro, sia delle malattie professionali. Dietro ogni numero ci sono persone, le loro storie, famiglie e amici. Ferite aperte che difficilmente potranno rimarginarsi e che, in molti casi, non trovano neppure un equo risarcimento.

Non si può spiegare un fenomeno di queste dimensioni senza affrontare le responsabilità del sistema economico. E senza nascondere le peggiori forme di sfruttamento, come la brutalità dei rapporti di lavoro presenti nel settore nevralgico della logistica o nelle forme di caporalato in agricoltura.

Si dice, in maniera generica, che la sicurezza sul lavoro in Italia è una “questione culturale”. Lo è in molti casi e l’antidoto è investire realmente in sensibilizzazione, informazione e formazione. Ma questa tesi, ripetuta come un mantra, non vale in assoluto. La recrudescenza del fenomeno, dopo che per anni si erano fatti passi in avanti, chiama in causa altri fattori.

Faccio un solo esempio, paradigmatico. Se all’ex-Ilva di Taranto si verificano cedimenti strutturali di gru negli impianti marittimi, di carro-ponti nei laminatoi, d’incendi nei nastri trasportatori del minerale ecc. ecc. parlare di “questione culturale” equivale a rimuovere lo sguardo sul deficit di investimenti tecnologici e organizzativi, di manutenzioni, di contrappeso sindacale nell’organizzazione del lavoro da parte di un management che risponde ad ArcelorMittal (la principale impresa al mondo nel settore siderurgico) e alla mano pubblica (lo stato è socio di minoranza con Cdp).

Se vogliamo cambiare le cose dobbiamo, quindi, iniziare da una franchezza nel linguaggio, dal chiamare le cose per nome, per recuperare il giusto coraggio ad agire.

Oltre i numeri i volti delle persone

(A cura di Carlo Cefaloni)

Raramente la cronaca si occupa in maniera approfondita delle morti sul lavoro tranne i casi più eclatanti come quello di Luana D’Orazio, operaia di 22 anni, madre di una bambina, stritolata nel 2021 da una macchina tessile di una delle tante piccole aziende del settore in provincia di Prato, in Toscana, legate ad una filiera che impone tempi stretta di consegna della merce.

Per capire le cause di tante “morti bianche” ( una media di tre al giorno) bisogna partire dai volti e dalle storie dei lavoratori, il contesto sociale e il sistema produttivo che governa la vita degli esseri umani. In molti ricordano il rogo dei 7 operai della ThyssenKrupp di Torino, nel 2007, nell’impianto siderurgico in via di dismissione da parte della multinazionale tedesca i cui vertici sono stati condannati con sentenza confermata in Cassazione.

Se ci si ferma ai numeri, si può leggere il dato dell’Inail che nel 2021 ha contabilizzato 1221 decessi causati da infortuni sul lavoro. Un numero che non tiene conto di chi è occupato in nero e delle categorie non iscritte all’Istituto nazionale delle assicurazioni. Per avere una visione completa del fenomeno viene citato, da molte fonti, il quadro offerto da Carlo Soricelli, operaio metalmeccanico in pensione e artista sociale, nel suo blog https://cadutisullavoro.blogspot.com/.

Nonostante l’incremento annunciato delle assunzioni di ispettori del lavoro resta difficile vigilare l’intero comparto produttivo del Paese. Occorre un forte impegno concreto del mondo del lavoro e della società nel suo complesso. Vincolare le risorse del Pnrr al rispetto della sicurezza del lavoro rappresenterebbe una scelta che va in questa direzione.

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