1917, in mezzo alla guerra
Non è il solito film sulla Grande Guerra, pieno di morti, feriti con tocchi grandguignoleschi, anche se l’orrore e la visione dei massacri non sono nascosti. Il regista Sam Mendes racconta l’eccidio – l’”inutile strage”, come la definì l’incompreso papa Benedetto XV – dal di dentro. Cioè, dall’interno dei personaggi: da una parte i responsabili militari, ora cocciuti ora audaci, dall’altra i soldati. Nel caso, l’amicizia fra due giovani inglesi, il caporale Schofield (George McKay) e il caporale Blake (Dean-Charles Chapman), inviati in una pericolosa missione ad attraversare la terra di nessuno sul fronte franco-belga e a raggiungere la cittadina di Ecoust per consegnare al generale Mackenzie l’ordine di non attaccare i tedeschi, in finta ritirata e pronti a massacrare oltre 1000 uomini.
Il viaggio fra i due eserciti, sottoposti ai pericoli dalla terra e dal cielo, diventa per i due un viaggio di formazione alla vita. È una corsa contro il tempo. Ed è questo il grande protagonista del film: un tempo di ansia, incertezza, battito, secondo dopo secondo, in cui tutto può succedere, con gli occhi davanti alle macerie delle città, alle vittime, alla propria possibile fine. Alla morte, che aleggia in una natura violentata dalle bombe e dal sangue, eppure bella di alberi ed acque. È il battito della vita che accompagna i due giovani in mezzo ai pericoli. Vivranno ancora essi, si realizzeranno i loro sogni – Blake è sposato, aspetta un figlio – oppure finiranno come gli uccisi nel fango?
Nessuno è un eroe in questo conflitto, al di là della facile retorica postbellica, perché «vince chi sopravvive», come dice un generale. I due amici si aiutano, si scontrano, si raccontano. L’occhio del regista osserva certo la ferocia dei belligeranti, il marcio e il sangue, ma punta ai due ragazzi in cui lo sgomento si accompagna alla tenacia, la paura alla speranza. Quello che tuttavia forma il cuore del racconto è il sentimento di una grande pietà, di una commossa pietas sulle sventure umane, sulla disumana morte dei giovani e dei piccoli. Dalla povera donna nascosta tra le macerie con una bambina che non è sua, al casolare distrutto, alle mucche uccise, scende lo sguardo del regista, e ci porta l’ingiustizia di ogni guerra. La morte è ovunque, inattesa e tacita come certe Pietà medievali.
Non c’è tempo per le lacrime, bisogna ricacciarle dentro, non farsi prendere dalla emotività, se no ci si distrugge. E correre, come fa il caporale ad avvisare il generale ed impedire la strage dei soldati che in un bosco, per rincuorarsi, cantano una struggente melodia.
Ce l’ha fatta, il caporale Schofield. Siamo in guerra, si deve accettare la morte. Eppure, proprio da essa viene un amore immenso per la vita che forse aprirà nuovi orizzonti al caporale sopravvissuto, nel finale che forse è il punto più alto e più bello di un film che parla di morte, ma omaggia la vita, il coraggio di centellinarla attimo dopo attimo per assaporarne la bellezza.