Intervista a Marco Omizzolo
Sergio Mattarella, a fine 2018, ha premiato, conferendo titoli dal nome antico (“cavaliere, commendatore, Ufficiale”), 33 persone che danno prova di «Dedizione al bene comune e testimonianza dei valori della Repubblica».
Marco Omizzolo, sociologo e ricercatore Eurispes e In Migrazione, di Sabaudia, provincia di Latina, come recita la motivazione della nomina «segue da anni il fenomeno dei braccianti nell’Agro Pontino: ha descritto la rete dei caporali, raccontato le condizioni di vita, i problemi di salute e lo stato delle abitazioni di questi lavoratori. Da quando ha cominciato ad impegnarsi sulla questione, riceve avvertimenti e minacce di morte».
Omizzolo è noto, tra l’altro, per aver fatto emergere gravi questioni ambientali, come l’abusivismo edilizio nel Parco nazionale del Circeo, facendo luce sulla morte, nel 1995, di don Cesare Boschin, ucciso dalla camorra dopo aver denunciato il traffico di rifiuti tossici a Borgo Montello. Prima del titolo presidenziale, ha avuto l’onore, nello stadio di Latina, di uno striscione intimidatorio per aver denunciato le mire dei mafiosi sulla società di calcio, confermate poi dalle inchieste della magistratura.
Sabaudia è meta di personaggi famosi, attratti dal suo splendido litorale. Difficile immaginarla come terra di sfruttamento. Come si spiega questa rimozione?
Io la chiamo “indifferenza strumentale”. I braccianti sono accanto a noi ma non li vediamo perché sono utili al sistema. Lavorano 12 ore al giorno nelle serre a temperature insostenibili per circa 350 euro al mese, ma sono “utili invasori” come dice il sociologo Maurizio Ambrosini.
E come te ne sei accorto?
Li vedevo passare sotto casa mia, la mattina presto, per tornare tardi la sera, con le loro biciclette sgangherate. Mi colpivano i turbanti e le lunghe barbe. Arrivano dal Punjab indiano dove è prevalente la cultura e la religione Sikh. Li ho guardati con un occhio diverso diventando loro amico. Ho scoperto così il posto dove sono concentrati, nella frazione Bella Farnia dove si trova anche il loro tempio, ricavato da un ex magazzino. Era il 2008.
Un approccio, si può dire, da studioso?
Ho lottato in famiglia per poter continuare gli studi dopo la maturità. L’incontro con la comunità sikh in provincia di Latina è stata al centro della mia tesi di dottorato condotta con il metodo dell’osservazione partecipata perché ritengo centrale il rapporto con la persona nella conoscenza di fenomeni così complessi e inesplorati. Sono stato con loro per un anno e mezzo condividendo i tempi della giornata, le feste, le assemblee nel tempio. Il primo italiano a stabilire rapporti paritari. Non come i vari capi e padroni che avevano incontrato. Senza dimenticare i frequenti episodi di “caccia all’indiano” dei gruppi di giovani italiani che si divertivano a colpirli mentre tornavano a casa di notte.
Da quanto tempo i Sikh sono presenti a Latina e perché?
I primi arrivi sono della metà degli anni 80. Si tratta di un’emigrazione di “rimbalzo”, respinti da altre mete come Usa, Canada, Gran Bretagna e Nord Europa. Comunità consistenti esistono a Cremona e a Novellata in provincia di Reggio Emilia. Dopo una permanenza a Roma, con la crisi, vengono attratti dalla forte richiesta di braccia nella pianura pontina. La stanzialità arriva con la costruzione del tempio. Si tratta di un centro conosciuto e frequentato dalla comunità sikh europea. Coltivano stretti rapporti con la madrepatria, dove la crescita del nazionalismo indù odierno porta ad una crescente diaspora di questa realtà di circa 27 milioni di persone nel mondo («comunità religiosa e politico-militare dell’India fondata nel Punjab da Nānak, 1469-1538» cit. Treccani, ndr)
Come è possibile che accettino di lavorare come servi?
Da una parte per la particolare concezione del lavoro legato alla crescita della comunità. Poi c’è l’idea di restare poco tempo per tornare in famiglia e spostarsi il più vicino alla città di Amritsar, sede del “Tempio d’oro”. Nel 30% dei casi esiste il fenomeno della tratta internazionale a scopo di sfruttamento lavorativo. L’imprenditore si rivolge al trafficante indiano residente a Latina che organizza il reclutamento, tramite i suoi affiliati nel Punjab.
Quanto paga l’imprenditore italiano per questo servizio?
Fino a 5 mila euro a persona. Il trafficante organizza le cose sotto una forma regolare, con viaggi aerei, visti e alloggi garantiti. Una tratta “grigio-nera”, come l’ho definita insieme al sociologo Francesco Carchedi. L’ho studiata seguendo un trafficante indiano in India e osservando modalità, interessi e prassi che mi hanno permesso di definire questo sistema internazionale di sfruttamento e di tratta. In passato si muovevano in auto, tramite la mafia russa, attraverso gli Urali. Il migrante paga da 7 a 15 mila euro nella prospettiva dei guadagni promessi.
E hanno tutti questi soldi?
Si sposta il ceto medio. Latina è una eccezione. I casi italiani più noti in Punjab sono quelli del nostro Nord dove gli imprenditori sikh rilevano a volte l’azienda dal proprietario italiano senza eredi. Accade, per esempio, a Parma o nel cremonese. L’imprenditore di Latina rientra del proprio investimento pagando pochissimo i nuovi dipendenti. Da 2 a 3 euro l’ora (il contratto collettivo ne prevede 9 lorde). Il lavoro è faticoso per un sikh che non si nutre a sufficienza, gli osservanti non mangiano carne e pesce, e pertanto svengono. Lavorano fino a 30 persone in grandi serre dove si usano fitofarmaci a temperature elevate, con danni gravi soprattutto per le donne. I padroni offrono grappa, bevande energizzanti, ma consentono anche ad alcuni spacciatori indiani, collegati ai trafficanti, di entrare nelle serre e diffondere sostanze dopanti come metanfetamine, antispastici e oppio. Io l’ho visto perché mi sono infiltrato come bracciante per 3 mesi. Conoscevo il caporale, che poi appartiene al genere di persone più integrate, che organizzano il lavoro e prendono uno stipendio normale, credendo così che tutto ciò sia giusto. E spesso lo crede anche lo sfruttato.
Ma di quante persone stiamo parlando?
Circa 30 mila Sikh, dei quali circa 18 mila addetti ai campi con 3 mila caporali.
Come è scattata la rivolta?
Con incontri sempre più partecipati nel tempio e, poi, soprattutto grazie al “progetto Bella Farnia” della cooperativa In Migrazione. Si è costruito, inoltre, un rapporto molto solido di collaborazione con la Flai Cgil, già presente nell’offrire servizi ai lavoratori indiani, in un contesto dove prevale la forza di circa 10 mila aziende agricole iscritte alla camera di commercio che riforniscono i grandi mercati ortofrutticoli nazionali, la grande distribuzione o esportano all’estero. Sono imprese locali ma ci sono forti investimenti dal casertano e dalla Calabria. La prima vertenza è nata nel 2011 dopo che 30 lavoratori avevano lavorato 6 mesi senza essere pagati. Abbiamo chiamato la Flai Cgil per organizzare lo sciopero davanti l’azienda tutta la giornata. Eravamo in 10 per arrivare, in poco tempo, a 60 persone, nonostante le intimidazioni. Ho visto il valore della comunità, perché le proteste dei singoli, in casi precedenti, erano state liquidate con le bastonate. Alla fine, i padroni sono usciti per dire che avrebbero risolto il problema, ma la sera sono andati davanti le case degli scioperanti per minacciarli seriamente davanti a tutti gli altri braccianti. Una manifestazione pesante di agromafia.
E come avete reagito?
Il caso pontino si è rivelato l’esempio più eclatante di quel fenomeno preso di mira dal nuovo codice antimafia con l’articolo 416 bis del codice penale che condanna le azioni mafiose senza dover dimostrare l’affiliazione ad un cosca. Ho chiamato e fatto venire, con la stampa nazionale, a fare ispezioni improvvise alcuni parlamentari, tra i quali Davide Mattiello, membro all’epoca della commissione antimafia, relatore della nuova norma, oltre che tra i promotori della legge 199 del 2016 sul caporalato. Una legge fondamentale da difendere e che oggi è minacciata.
Cosa è che ti muove?
Un senso di giustizia che poi trova compimento come nel caso della liberazione di un bracciante indiano costretto per 6 anni, a Latina, a vivere in una roulotte senza acqua luce e gas per lavorare come schiavo, 150 euro al mese senza vitto, in una stalla e poi nell’agriturismo di un padrone che lo picchiava. Ha pensato più volte di togliersi la vita. Sono 12 i suicidi negli ultimi 3 anni avvenuti nelle serre del pontino, ma quest’uomo, venendo a conoscenza degli scioperi, ha trovato la forza di chiederci aiuto. I carabinieri di Latina hanno fatto le intercettazioni e gli appostamenti giungendo ad arrestare il torturatore italiano. Il bracciante è ora libero, protetto da una rete associativa. Ha avuto la forza di costituirsi parte civile contro il padrone, ma ha solo un permesso di soggiorno per motivi di giustizia che scade ogni 2 mesi e nessuno lo assume. Altri indiani denunciano lo sfruttamento ma attendono 5 anni per essere ascoltati in prima udienza, mentre la lettera di licenziamento arriva subito. Lo Stato, a volte, promette giustizia ma manca clamorosamente questo obiettivo.
E in questo clima come siete arrivati allo sciopero del 18 aprile 2016 in piazza a Latina?
È stato il frutto di un cammino di formazione sociale avanzata della comunità indiana, finanziato anche dalla regione Lazio seppur per pochi mesi nel 2015. Un percorso di “pedagogia degli oppressi” che trovano in se stessi la forza per ribellarsi, con servizi innovativi che organizzammo nei luoghi di loro residenza. Nonostante intimidazioni e avvertimenti abbiamo continuato ad informare i braccianti dei loro diritti, immaginando, insieme, forme varie di mobilitazione. Dopo questa presa di consapevolezza, chi organizza lo sfruttamento reagisce togliendo di mezzo i lavoratori sindacalizzati, mescolando braccianti indiani, rumeni e subsahariani mettendoli in competizione tra loro.
Resta tanto lavoro da fare…
Mi accusano di essere troppo compromesso nei processi che studio, ma penso che bisogna sporcarsi con la realtà che è più grande delle nostre elaborazioni. Per me è stato importante, da diciottenne, l’incontro con un amico che faceva, per scelta, l’operaio addetto alla manutenzione delle strade, nonostante parecchi studi e la conoscenza di lingue moderne e antiche. «Ricordati – mi disse – che la cultura è come un coltello. La puoi usare per tagliare la gola alle persone, ma anche per tagliare e condividere il pane».
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