The Post e la storia
Steven Spielberg è un autore prolifico, che spazia con disinvoltura attraverso i generi. Ogni volta racconta storie reali o fantastiche di notevole vigore narrativo e di grande impatto sul pubblico, sempre accurato nella scelta degli interpreti, nel dare credibilità ai suoi racconti, da grande creatore di immagini qual è. Capace di passare dai fantascientifici E.T. e Jurassic Park alla saga di Indiana Jones, dal dramma umano di Schindler’s List, alla guerra di Salvate il soldato Ryan, fino allo storico Lincoln e al trhiller Il ponte delle spie del 2015.
Grazie a star indiscusse come Maryl Streep e Tom Hanks ritorna in sala con The Post. È il 1971: Katharine Graham è la prima donna alla guida del Washington Post di cui è direttore Ben Bradlee. I due si sopportano, diversi come sono: lei elegante, socievole, amica di McNamara e dei politici, ma anche tenera madre, decisa a salvare il giornale di famiglia; lui intelligente, caparbio, coraggioso. I segreti del Pentagono riguardo alla guerra in Vietnam vengono alla luce grazie alle rivelazioni di un ex impiegato e svelano bugie, falsità, errori nascosti al popolo americano da decenni da parte del potere politico. La donna e il giornalista metteranno a rischio vita e carriera per farla conoscere al pubblico. L’antica solidarietà americana tra politica e informazione salta: bisogna lottare per la libertà d’informazione e non è facile. Lei, in particolare, non ha esperienza giornalistica, non sa cosa voglia dire essere sempre sulla notizia per un giornale. Ma sa mettersi in discussione, anche perchè una donna alla guida del Washington Post o di qualsiasi altro giornale non è di moda all’epoca. Siamo così in un trhiller politico in cui le molte facce del compromesso, del ricatto, del silenzio omertoso insieme alla tentazione del silenzio, della viltà vengono in luce. E insieme in un discorso sulla capacità delle donne di farsi valere e di assumere posti di responsabilità.
Spielberg non trascura nessuna delle due direzioni del film, attraverso una miriade di personaggi minori e con una macchina da presa mobilissima, capace di non staccarsi mai dalla storia e dai personaggi, tanto da “entrare” nello spettatore con assoluta naturalezza. Crea un affresco corale di ampio respiro in cui ciascuno deve assumersi le proprie responsabilità e fare delle scelte morali, non solo lavorative. Spielberg affonda il coltello nella piaga della doppiezza e dell’ipocrisia senza pietà, anche se con stile, alternando momenti distesi – la vita in casa di Katherine – con altri più dinamici e con il dramma personale di una donna che può perdere tutto ciò che ha costruito nella vita.
Superbi Streep e Hanks come la folta schiera dei comprimari, in un lavoro di grande cinema che vale la pena vedere in sala, nella magia del grande scherno con cui entriamo in questo periodo di “brutta” storia americana. Loro, però, gli americani, hanno il coraggio di affrontarla con larghezza d’immaginazione e confronto sincero con i fatti. A differenza di noi?
Ritorna Winston Churchill in tempo di guerra. Un tempo per i giovani lontano anni luce, ma vale la pena ritornarci perchè ci ha lasciato la libertà, a costo di enormi sacrifici. E sono questi che chiede agli inglesi il leader nel film di Joe Wright L’ora più buia. Accompagnato da una colonna sonora melodrammatica e da una fotografia che predilige le sfumature, il racconto è schiettamente teatrale. Sembra l’altra faccia di Dunkirk. Se infatti questo epos era ambientato all’esterno, L’ora più buia è fatta di interni, di conversazioni, di rapporti interpersonali drammatici. Winston, così poco stimato da molti colleghi, trova nella moglie – una superba Kristin Scott Thomas – il conforto, la forza per annunciare l’entrata in guerra “per la libertà”. Una decisione sofferta, ma che ha cambiato il corso della storia europea.
Recitato da un grande Gary Oldman (premio Golden Globe) il film affronta ancora una volta – la sesta, dal 1974 – un personaggio discusso come Churchill, svelandone debolezze, fragilità, ma pure la determinazione. Oldman giganteggia nel film in due ore di tensione crescente senza alcuna sbavatura retorica. Grande cinema.
Ed è ancora la guerra, le rappresaglie contro gli ebrei nella Francia occupata dai nazisti, la protagonista di Un sacchetto di biglie, il film di Christian Duguay. Che ha il coraggio – un esempio per noi italiani – di ripercorrere il periodo discusso del governo Pétain in collaborazione con la Germania. Tratta dal libro autobiografico di Joseph Joffo la storia racconta le vicende della sua famiglia parigina, dispersa dal terrore dei nazisti. I due fratelli più giovani vivono l’avventura drammatica della fuga, della prigione e della libertà ritrovata. Dolore, paura, rabbia e astuzia si intersecano senza patetismi, ma con la narrazione asciutta da parte del regista di Belle & Sebastien che sa far recitare i ragazzi con disinvoltura e impegno. Commovente e riflessivo, è da non perdere.