Leggere e rileggere la storia in India

Come spesso accade in India, alcune produzioni cinematografiche provocano reazioni forti, sia dal punto di vista emotivo che religioso, creando spesso tensioni sociali che sfociano in violenza sia contro le persone che contro i locali dove vengono proiettate le pellicole al centro del contenzioso. La cosa si è ripetuta recentemente, per via dell’uscita e delle prime proiezioni di un film – il titolo è Chhaava – che tratta di un’epoca storica, quella dell’impero Moghul, letta in modo significativamente diverso, se non opposto, da hindu e musulmani.
La civiltà Moghul, infatti, è frutto dell’incontro della cultura musulmana arrivata dal mondo arabo e persiano e di quella indù, da sempre nata e sviluppatasi nel sub-continente indiano. L’impero dei Moghul esercitò il suo potere sull’intero sub-continente fra il 1526 e il 1707, dando vita a una economia tra le più ricche e sviluppate dell’epoca e, soprattutto, a forme artistiche di rara bellezza, che trovano la loro espressione massima nel Taj Mahal di Agra, ma anche in decine di altri monumenti visibili in molte parti dell’attuale Pakistan e del nord India. Fra gli imperatori Moghul, Akbar è ricordato per essere stato un cultore dell’incontro e del dialogo fra culture e religioni. A corte aveva adibito una zona del Palazzo a incontri che favorissero il dialogo ai quali invitava indù, musulmani, buddhisti e anche gesuiti, come rappresentanti del mondo cristiano.
Il periodo storico a cui si riferisce il film al centro della polemica, sfociata anche in scontri tra opposte fazioni e le forze dell’ordine, nella città di Nagpur, roccaforte del nazionalismo indù, è quello che riguarda l’imperatore Ālamgīr I, anche noto come Aurengzeb. Si tratta del protagonista di una politica espansionista che portò all’imposizione dell’Islam in tutta l’India meridionale attraverso campagne di conquista.
Tutto il subcontinente, ma in particolare il sud India vissero un periodo assai difficile che portò, alla morte di questo imperatore, al disgregarsi dell’impero Moghul e, nel giro di alcuni decenni, alla conquista coloniale della Compagnia delle Indie Orientali e, dal 1859, alla dominazione coloniale britannica. Il sogno di Aurengzeb era quello di arrivare alla conquista completa della penisola indiana. In particolare, si accanì contro i principi indù dell’attuale stato del Maharashtra, i cosiddetti maratha, che avevano creato una loro confederazione che i Moghul non riuscirono mai a conquistare.
La pellicola racconta proprio una fase di questo periodo guerresco, concentrandosi sul conflitto fra l’imperatore Moghul e il figlio – Sambhaji – del fondatore del regno maratha, Chhtrapati Shivaji. Quest’ultimo è da sempre l’eroe dello stato del Maharashtra, in particolare dei suoi abitanti, i maratha, che lo considerano un modello umano, ma anche un punto di riferimento per il coraggio e la perizia politica e amministrativa. Nello stato di Mumbai – il Maharashtra appunto – i monumenti, le strade e i luoghi pubblici intitolati a Shivaji sono probabilmente più numerosi di quelli dedicati al mahatma Gandhi. Shivaji è il punto di riferimento della politica dello Shiv Sena, partito politico che si definisce appunto “Esercito di Shivaji”, che, dopo la fondazione nel 1966, nell’ultimo decennio si è frantumato per faide interne familiari.
La questione è, dunque, assai delicata e la pellicola ha risvegliato nell’animo di migliaia di marathi la rabbia per quanto gli antenati hanno dovuto sopportare dai musulmani di Aurengzeb. In particolare, le scene in cui per ordine dell’imperatore Moghul viene torturato il figlio di Shivaji – Sambajii – hanno causato, durante la proiezione nelle sale, urla, pianti e rabbia crescente, sfociata in scontri, soprattutto nella città di Nagpur con un morto e decine di feriti. Il film è diventato una questione di politica nazionale ed è stato proiettato anche nell’auditorium Gmc Balayogi presso il Parlamento dell’India, alla presenza del premier Narendra Modi e di vari ministri.
Quanto accaduto con questa pellicola è parte di un fenomeno preoccupante, perché l’attuale governo è da tempo all’opera per riscrivere la storia del Paese, cercando di cancellare i contributi dati e le evoluzioni sviluppatesi attraverso contatti con altre culture e religioni. Ciò che deve emergere – secondo questa ideologia – è la storia dell’India degli indù, a scapito di contributi di migrazioni e conquiste, che, sebbene spesso dolorose, hanno comunque dato vita a momenti e a evoluzioni assai ricche rispetto a quanto l’India è oggi.
Tuttavia, l’onda iniziata con la questione della Moschea di Ayodhya (distrutta da facinorosi indù all’inizio degli anni Novanta con la scusa che era stata costruita su un luogo sacro a Ram, divinità cara agli indù) ha portato a rivendicazioni di diversi luoghi ritenuti sacri da entrambe le tradizioni religiose. Questo crea tensioni sociali non indifferenti, e rischia soprattutto di deturpare la grandezza e ricchezza della storia dell’India che, anche se attraversata da violenze, si è contraddistinta per la tolleranza.
In questo panorama, i sostenitori dell’hindutva, respingono le accuse di fomentare tensioni su questioni storiche per ottenere vantaggi politici. Il presidente del Vhp (movimento che si ispira all’ideologia hindutva e al nazionalismo indù), Alok Kumar, è chiaro quando dice: “Non ci dovrebbe essere alcuna glorificazione di Aurangzeb”. Sorprende, invece, che il Rss (milizia paramilitare di estrema destra) abbia invocato la moderazione su quanto sta accadendo. Questo gruppo fondamentalista, che è accusato di controllare il governo Modi, dopo la costruzione del tempio di Ram edificato sulle rovine della moschea di Ayodhya, ha adottato una strategia più sfumata, chiedendo ai suoi seguaci di non impegnarsi in alcuna attività illegale per opporsi ai torti storici, ma di rivolgersi ai tribunali per chiedere aiuto.