Giovani insieme per 24 ore di carità

Parma è una città dai mille volti, ma soprattutto ha un cuore che batte per chi ha bisogno, il cuore di tanti volontari che si adoperano in vario modo per alleviare le sofferenze di molti. Lo sanno bene gli adolescenti che hanno risposto con entusiasmo ed interesse partecipando numerosi alla “24 ore young carità”: un’iniziativa promossa dalla Consulta enti caritativi della diocesi, che li ha invitati con i loro insegnanti.
Si sono trovati davanti ad uno spaccato della loro città che forse non conoscevano, la cosiddetta “Parma con il grembiule”, quello indossato da alcuni dei suoi abitanti per accostarsi, accompagnare, essere a servizio di chi si trova in difficoltà nelle varie tappe della vita.
Hanno così visitato diversi stand allestiti per loro, hanno visionato immagini e letto storie, hanno potuto dialogare con i volontari presenti, desiderosi di condividere con i ragazzi i bisogni di una parte della società più fragile, più debole. In questo modo, senza clamore, sono stati gradualmente introdotti nella realtà dei “poveri” della loro città guardando negli occhi e ascoltando attentamente i tanti, uomini e donne, di ogni ceto sociale, età, professione, nazionalità, che si mettono a servizio dei bisognosi senza lasciarsi fermare da pregiudizi, imprevisti e difficoltà perché insieme sanno guardare oltre provando a trasformare il negativo in positivo.
E qualcosa di importante è passato per giungere dritto al cuore. Lo si capiva dal silenzio con cui chi parlava veniva ascoltato, dai cenni del capo, da occhi ed orecchi attenti a non perdere nulla. Ciò che ha colpito profondamente gli studenti è stato vedere quanti con estrema semplicità, dopo il lavoro e la famiglia, dedicano parte del loro tempo a persone inizialmente sconosciute. Tra loro ci sono credenti di varie religioni, ma anche non credenti e atei; ciò che li accomuna è il desiderio di rendersi utili in qualche modo per essere solidali, per ridare valore e dignità ad un’umanità in difficoltà anche per scelte sbagliate.
Protagonista assoluta nei vari stand la creatività espressa da colori, oggetti, immagini, testimonianza dei tanti modi di accogliere e di sostenere il disagio e la necessità di tanti.
Tra i fili conduttori di questo percorso c’è la speranza. Se noi la perdiamo, perdiamo tutto: anche la fede, perfino l’amore. È necessario però, che il nostro sperare sia ragionevolmente fondato sul sacrificio, sulla fatica. L’attesa che il nostro desiderio si realizzi fa parte della nostra natura umana. Per risolvere i problemi della gente, occorre avere tanta speranza, la speranza-bambina, quella che difronte a tutte le brutture del mondo, vede quello che sarà e ama in anticipo quello che verrà.
La speranza è il miracolo di chi ha occhi che penetrano in profondità e guardano in prospettiva. Perciò non basta stare con i poveri, condividere le loro situazioni: occorre coltivare e organizzare la speranza “attorno alle nostre disfatte” e poi perseverare anche quando si è davanti a situazioni particolarmente difficili.
Per coltivare occorre seminare, ma educare è come seminare: il frutto non è garantito, ma se non si semina è certo che non ci sarà raccolto.
E di piccoli semi ne sono stati depositati tanti in questi giovani. Parole come servizio, impegno, formazione, fraternità, amore, gioia.
«Mi ha colpito parecchio questa specie di mostra fatta per affrontare il tema della povertà – ha raccontato Virginia alla fine della giornata -. Molti di questi enti con cui abbiamo dialogato si occupano di fornire pacchi alimentari e di prima necessità. È un lavoro importante, capillare, ma poi occorre passare ad altro per non creare una dipendenza in chi viene assistito».
«Oltre i pacchi, infatti, mi ha interessato sapere che ci si mette alla ricerca di un possibile lavoro da offrire – ha aggiunto per l’appunto Lorenzo -, che faccia uscire queste persone dalla loro condizione disagiata».
Elia è invece rimasto sorpreso «dal tanto impegno nell’organizzare corsi di italiano e l’assistenza nei compiti per i bambini. Io ho dato la mia disponibilità».
Roberto, da parte sua, si è chiesto «se quelli che accettano gli aiuti magari rischino di rassegnarsi alla loro condizione e decidono così di rimanere a vivere per strada»: un dubbio a cui ha fatto eco Luca riconoscendo che «il rischio c’è. Il punto vincente per me sarebbe quello di assicurare loro una certa autonomia in modo che abbiano il coraggio di uscire da questa situazione».
Rossana ha affermato di aver capito «che non c’è giustizia, che la ricchezza è distribuita male. Non è colpa dei poveri se sono nati così!»
«Come sono state le loro condizioni di partenza? Chi può cambiarle? – si è chiesto Luigi – Apprezzo molto il lavoro dei volontari, voglio esserlo anche io, ma penso che sia importante andare a bussare ai politici perché tengano conto delle fasce più deboli». «Sì, è vero! – gli ha fatto eco Silvio – Chiederei di dare maggiori opportunità alle famiglie per garantire istruzione e cure mediche adeguate e avere un sistema fiscale diverso».
Ad ogni classe è stata consegnato un bulbo di giacinto: un invito a coltivare la speranza e a prendersi cura della vita, di ogni vita perché possa fiorire.