Una vita per i poveri

Controllo il cellulare e non riesco a trovare la mia posizione sul GPS: in questo luogo ai confini del mondo, non c’è campo, o meglio, Internet è stato appositamente limitato per evitare che la connessione fosse utilizzata per le truffe. Siamo in territorio thailandese, poco distanti, in linea d’aria forse 500 metri, dalla città famosa per le truffe online chiamata Shwe Kokko, in territorio del Myanmar, che si trova al di là della collina che mi sta di fronte: oggi, uno dei posti noti, caldi, delle cronache internazionali. Decine di migliaia di persone da tutto il mondo, rapite e trattenute con la forza, a volte uccise, rinchiuse in alberghi e centri fatiscenti: attirate qui col miraggio di un facile lavoro, erano costrette a telefonare via cellulare persone in tutto il mondo, per truffarle. Tutto è andato avanti, seppur con proteste, fino al momento in cui è stato rapito un noto attore cinese (non era la sola persona famosa ad essere stata incastrata). Solo allora, dopo miliardi di dollari letteralmente persi (trasferiti in conti esteri) da centinaia di migliaia di cittadini anche cinesi (nel corso di alcuni anni), il governo cinese ha ufficialmente chiesto, con una certa forza convincente, al governo Thai di porre fine a questa farsa, resa possibile da mille complicità in tutta la Thailandia. Nel giro di poche settimane, sono state tagliate le linee elettriche che approvvigionavano Shwee Kokko, insieme alla fornitura di benzina, alla rete Internet, e sono stati chiusi i punti di passaggio (peraltro ben noti) dove la gente veniva portata in Myanmar, con l’inganno, e praticamente rapita.
Al momento in cui scrivo, Shee Kokko è bloccata, decine di migliaia di persone sono state liberate e i capi (quelli che non era riusciti a scappare) arrestati. Alcuni subito estradati in Cina e già sotto processo: le autorità cinesi non saranno delicate. Molte di queste persone liberate si trovano in centri di rimpratrio in Myanmar: un vero rompicapo per molti governi stranieri, perché viene da domandarsi: costoro sono vittime o aguzzini?
Tutto questo passa per la mia mente mentre, con circa 37 gradi, mi sdraio in una capanna e guardo il tetto di paglia. La luce entra, come anche un bel venticello caldo, quasi gradevole, accompagnato da altri spifferi anche sotto la mia schiena, tra le fessure del pavimento di steli di bambù. La gente semplice, che ci ospita, sta prearando un tipico dolce di riso bollito: bevo un thè caldo che porta refrigerio e continuo a guardare la capanna, la gente e questo cielo, che dalle fessure invade la capanna e anche la mia anima. Tutto quanto detto sopra è così lontano da questa donna, con due bambini (il marito per 2 mesi è presso un sito in costruzione e speriamo ritorni sano e salvo). Per lei è Natale e Pasqua tutto insieme oggi, perché siamo arrivati noi. E lei per noi è il segno di una resurrezione: di un mondo che non pensa solo al denaro, a sfruttare e uccidere il prossimo. Io inizio a pensare alla guerra, al di là della collina, in Myanmar, Ukraina, Sud Sudan. Dio mio, quanto dolore in queto mondo: perché?, è l’unica preghiera che mi viene dentro. La gente che abbiamo incontrato un paio d’ore fa, per la distribuzione dei vestiti, era felice. Una giovane mamma mi dice che mi conosce da quando lei era bambina: oggi è bella, bellissima per me, con un bimbo tra le braccia che sembra uscito da un quadro del Tintoretto: ed è felice. Oggi ci sono vestiti, cappelli per ripararsi dal sole, e tante altre cose che gli amici ci hanno regalato per loro. Alcuni capi di vestiario costano tanto: eppure la gente dona. Penso che il nostro pulmino, per questo viaggio, abbia trasportato non meno di 400 kg di vestiario e alla fine sono stati donati anche altri 100 kg di spaghetti di riso. E io continuo a guardare il cielo e le lacrime scendono: forse sarà sudore, mi dico. No: sono grato di essere arrivato qui, dove solo l’amore ti fa arrivare, l’amore di questa mamma, di sua sorella, di questi bimbi, dei loro mariti sporchi e stanchi. Mi manderai le foto del mio bambino, quando era piccolo? Tu lo hai fotografato anni fa. Alla fine del viaggio, capisco che il dono più bello che potevo farmi nella vita è stato questo: vivere per questa gente, per i più poveri. E il pensiero va al più povero dei poveri, a papa Francesco, che ci insegna cosa sia la vita: un dono dispiegato nel tempo, anche quando ci si ammala. Anche i karen al piccolo villaggio di Naw Do Bee, al confine, gli mandano un saluto e pregano per lui. Abbiamo bisogno del cielo che ci arriva dalle fessure di dolore della sua anima. Qui e altrove, la gente, il mondo intero, ha bisogno di quell’amore “che nulla chiede e tutto dona”, come amava dire Chiara Lubich.
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