La Nuova Siria va avanti, nonostante le stragi

Giovedì 6 marzo, alcuni attacchi improvvisi, ma probabilmente pianificati da giorni, contro pattuglie governative nell’area di Jable, non lontano dalla principale città portuale della Siria, Latakia, hanno provocato forse una ventina di morti, soprattutto fra i miliziani governativi. Gli attaccanti erano altri miliziani fedeli al deposto regime di Bashar al-Assad, guidati da ex militari del dissolto esercito siriano, svanito ad inizio dicembre con la vittoria della variegata coalizione di formazioni ribelli radunate intorno ad Hayat Tahrir al-Sham (Hts) e al suo capo, l’attuale presidente temporaneo della Siria, Ahmad al-Sharaa (nome di battaglia: al-Jolani, il golanese).
La reazione delle forze di sicurezza inviate da Damasco ha provocato il massacro di forse 1.300-1.500 persone, non solo miliziani ma intere famiglie, donne, bambini, anziani. La maggior parte delle vittime sono alawite, parte del gruppo religioso musulmano vicino agli sciiti al quale appartiene la famiglia del deposto dittatore Bashar al-Assad. Le organizzazioni per i diritti umani segnalano, dentro a questa reazione, decine di omicidi compiuti per vendetta da militanti sunniti e/o islamisti contro persone di credo alawita, indipendentemente dal loro coinvolgimento nel tentativo di insurrezione (che pare abbia radunato circa 4 mila miliziani pro-Assad).
In questi giorni si è parlato, in Siria e all’estero, alla luce di questo pur orribile episodio, finanche di fallimento della Nuova Siria. E della rivelazione delle “vere” intenzioni di Hts. Scontato, funzionale e ampiamente prevedibile, il commento del ministro israeliano della Difesa, Israel Katz: «[Al-Jolani] ha tolto la maschera, rivelando il suo vero volto: un terrorista jihadista della scuola di Al-Qaeda, che commette atrocità contro la popolazione civile alawita».
A me sembra che non sia così. E mi conforta l’opinione del vicario apostolico di Aleppo, il vescovo dei latini Hanna Jallouf, che in un’intervista dei giorni scorsi a Vaticannews ha detto fra l’altro: «Bisogna considerare che quando avviene un cambiamento di regime così repentino come quello dell’8 dicembre scorso – e in un Paese dilaniato da anni di guerra civile – perché la situazione politica, sociale e militare si stabilizzi occorre un periodo di tempo anche non breve, nel quale possono verificarsi tensioni forti. Entrano in gioco anche interessi personali o di clan compromessi e che cercano una rivincita… Dobbiamo avere a mente che quando parliamo di forze governative non stiamo parlando di un esercito strutturato, ma di gruppi armati guidati da Hayat Tahir al Sham. Non rispondendo ad un comando unico è possibile che alcuni di questi gruppi agiscano con una violenza eccessiva nei confronti degli insorti».
Al Sharaa ha comunque richiamato le forze di sicurezza e i civili armati accorsi a Latakia, che hanno attuato la strage, e ha avviato un’indagine per stabilire le responsabilità. L’episodio ha comunque scatenato un esodo importante di alawiti verso il vicino Libano. Secondo le autorità libanesi, oltre 6 mila persone sono arrivate per vie traverse in una dozzina di villaggi della provincia di Akkar, nel nord del Paese. Ma ci sono ben altre e notevolmente positive notizie dalla Siria, negli stessi giorni.
La prima è l’annuncio dell’accordo con i curdi del 10 marzo, fra il governo della Nuova Siria e le milizie che di fatto governano il nordest del paese da 10 anni: le Sdf (Syrian Democratic Forces) a guida curda. L’accordo firmato da Ahmad al-Sharaa e da Mazloum Abdi, comandante delle Sdf, prevede il cessate il fuoco e l’integrazione delle Sdf nell’esercito siriano (secondo modalità concordate). Sarà attuato e completato entro quest’anno e riunirà l’Est della Siria con Damasco. Ai curdi siriani verranno riconosciuti vari diritti tra cui l’insegnamento e l’uso della loro lingua, vietati per decenni sotto il regime degli Assad.
La seconda buona notizia è l’accordo con i drusi della regione sud-occidentale di Suwayda. È del giorno dopo, 11 marzo. Accordo annunciato dopo un incontro a Damasco tra il presidente al-Sharaa e il governatore di Suwayda, Mustafa Bakur, con rappresentanti e dignitari della comunità drusa della regione. L’accordo era stato preceduto da un episodio raccontato da fonti non ufficiali.
Mentre il 2 marzo gli israeliani si apprestavano a penetrare a fondo in Siria, ufficialmente per “difendere” i drusi di Jaramana (un quartiere a soli 5 km dal centro di Damasco, abitato soprattutto da drusi e cristiani), proprio gli abitanti drusi di Jaramana sono andati incontro alle forze di sicurezza di Damasco sventolando una vistosa bandiera drusa a 5 colori (verde, rosso, giallo, blu e bianco), poi i leader della comunità si sono fatti avanti ed hanno pubblicamente dichiarato che i drusi di Jaramana vogliono far parte della Siria. La sceneggiata era evidentemente rivolta ai soldati israeliani, che si sono dovuti limitare all’occupazione del Golan (regione di cui è originaria la famiglia di al-Sharaa) e di una parte del governatorato di Quneitra, poco oltre. Se fossero arrivati a Jaramana, il conflitto si sarebbe inevitabilmente allargato a tutta la Siria meridionale, e forse oltre, com’era probabilmente nelle intenzioni dell’esercito israeliano.
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