Le conseguenze economiche della politica di Trump

La politica commerciale aggressiva del presidente Usa, anche nei confronti dei Paesi europei, si basa su una narrazione errata della realtà con effetti negativi per gli stessi Stati Uniti. Le grandi sfide dell’economia mondiale si possono affrontare solo attraverso la collaborazione
Il presidente degli Usa Donald Trump, foto Ansa, EPA/JIM LO SCALZO

Il titolo di questo articolo, che richiama quello di un famoso saggio di John Maynard Keynes del 1919, ricorre in varie forme in questi giorni sulla stampa di tutto il mondo, segno dell’inquietudine per le sorprendenti mosse del neo-presidente USA Donald Trump in fatto di dazi commerciali: un susseguirsi di dichiarazioni, minacce, decisioni, rinvii…

Alla base c’è il gigantesco deficit commerciale degli Stati Uniti, che prosegue ininterrotto da trent’anni e ha superato i 1.000 miliardi di dollari all’anno. Trump si è impegnato a cambiare drasticamente le cose, “riportando a casa” attività produttive che in passato venivano svolte in gran parte all’interno del Paese e fornivano milioni di posti di lavoro relativamente ben pagati, soprattutto nel Midwest (pensiamo all’industria automobilistica).

Nella sua interpretazione, questi posti di lavoro sarebbero stati slealmente “rubati” da Cina, Messico, Canada… e dall’Unione Europea, che sarebbe stata creata non per evitare ulteriori guerre nel Continente, ma per “fregare” commercialmente gli Stati Uniti.

Non saprei dire se il nuovo inquilino della Casa Bianca pensi veramente che le cose stiano così, o se così le descriva – proponendosi come risolutore del problema – per guadagnarsi i voti delle fasce di cittadini più colpiti dalla grande trasformazione dell’economia americana degli ultimi decenni. È vero che l’Unione Europea fa pagare sulle auto importate dazi più alti rispetto a quelli applicati negli Stati Uniti (ma non dimentichiamo che lì sono più alti quelli sui SUV e i pick-up).

È  anche vero che, soprattutto in certe fasi, grandi esportatori verso gli USA come Giappone e Cina hanno mantenuto le loro valute ad un livello artificialmente basso per essere più competitivi.

Èd è pure vero che il più grande esportatore europeo verso gli USA, la Germania, è stata sempre molto cauta in fatto di finanza pubblica, con la conseguenza di mantenere sotto tono la spesa complessiva del Paese, e quindi anche le sue importazioni da oltre Atlantico.

Tuttavia, lo squilibrio commerciale americano è dovuto solo in parte al comportamento dei Paesi partner. Esso è causato anche dall’altissima propensione al consumo (piuttosto che al risparmio) delle famiglie americane: se il risparmio nazionale americano non fosse, di conseguenza, un modesto 17% del Prodotto Interno Lordo, ma raggiungesse il 21% italiano (non dico il 26% tedesco), ciò basterebbe per far sparire del tutto l’eccesso di importazioni.

Ancora, se il sistema finanziario a stelle e strisce non attirasse fiumi di miliardi dai risparmiatori e dagli operatori finanziari di tutto il mondo, la quotazione del dollaro sarebbe più bassa e così le merci americane diventerebbero più competitive.

Come a dire che il deficit commerciale si potrebbe curare disincentivando questo afflusso di capitali, senza bisogno di innescare guerre commerciali con i propri alleati, ma certo questo non piacerebbe alla grande finanza.

Quali allora le conseguenze economiche della politica di Trump? Difficile dirlo. Per tentare di orientarsi occorre prima di tutto distinguere in quale prospettiva temporale ci mettiamo. Butto lì una risposta azzardata.

Nel lungo periodo, l’atteggiamento di Trump finirà per danneggiare gli Stati Uniti, la cui posizione di preminenza è stata sostenuta anche dai sentimenti (sì, sentimenti) di fiducia, considerazione, riconoscenza e rispetto di una parte importante del resto del mondo. Non escluderei, invece, che la prepotenza di Trump possa forzare dei cambiamenti favorevoli all’economia americana nel medio periodo, diciamo entro le elezioni di parte del parlamento USA del novembre 2026. Quelli che si iniziano già a vedere, invece, sono gli effetti di breve periodo.

Negli spregiudicati affari immobiliari che hanno arricchito “the Donald” l’alternarsi di affermazioni ora aggressive e ora concilianti perché l’altro firmi impatta solo sul morale e sulle finanze delle sfortunate controparti.

Ma nel complesso contesto dell’economia mondiale ogni parola di un importante attore politico influisce sugli orientamenti di milioni e milioni di attori economici. Le troppe parole di Trump stanno accrescendo l’incertezza di chi si trova a decidere se acquistare, investire, assumere… sulla base di aspettative che fanno presto a diventare più pessimistiche.

Se ne è già avuto un assaggio nella caduta delle borse. Se ne sta preparando un altro a riguardo dell’occupazione, che è destinata a soffrire per la maggior cautela con cui si muoveranno le imprese. Rendendosene conto, Trump ha già messo le mani avanti dicendo che, sì, nell’immediato potrebbe esserci un rallentamento dell’attività economica (in linguaggio tecnico, una recessione), ma ha rassicurato gli elettori che poi gli effetti saranno positivi.

Le relazioni economiche uniscono elementi di cooperazione ed elementi di conflitto. Il timore è che la svolta che sta dando la nuova amministrazione americana acuisca ed esasperi i secondi. Non è di questo che l’economia mondiale ha bisogno, perché le grandi sfide che ci attendono (la povertà estrema, la salute del pianeta, …) sono sempre lì, anche se ultimamente poco se ne parla, e per affrontarle avremo bisogno prima di tutto di molto spirito di collaborazione.

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