Europa, l’alternativa all’economia di guerra

Viene da lontano il piano di riarmo promosso da Ursula von der Leyen. L’occasione di un confronto aperto sull’idea stessa di Europa e il suo ruolo geopolitico nel mondo, al centro del dibattito sulla manifestazione indetta il 15 marzo da Repubblica
Ursula von der Leyen EPA/OLIVIER HOSLET

Il governo italiano ha consigliato la von der Leyen di cambiare nome a Re Arm, il massiccio piano di riarmo da 800 miliardi di euro approvato dalla riunione straordinaria del Consiglio europeo che sarà confermato nei dettagli nella sessione ordinaria del 20 e 21 marzo.

Sta di fatto che la chiarezza nordica del termine usato della presidente della Commissione europea ha il pregio di rendere trasparente e comprensibile una scelta preparata da tempo e che il momento di «ottima televisione», così definito da Trump, del 28 febbraio 2025, con il suo scontro in diretta con Zelensky, ha solo accelerato e reso più accettabile.

A fare qualche distinguo e critica tra i socialisti e democratici europei sembra essere rimasta solo la segretaria del Pd Elly Schlein. Ma nel suo stesso partito, in Italia, si levano voci dissenzienti pesanti, come ad esempio quella di Paolo Gentiloni, ex co-commissario Ue all’economia, tra i papabili come federatore dell’area cosiddetta “moderata” del centro sinistra, e l’ala “riformista” rappresentata da Guerini, ex ministro della Difesa e ora presidente del Copasir.

La nuova maggioranza Ursula, che gode di una sorta di patto di desistenza con la destra dei conservatori europei, si muove sulla linea indicata dal Piano Draghi che orienta la Bussola per la competitività: «Ora abbiamo un piano. Abbiamo la volontà politica. Ci servono rapidità e unità. Il mondo non ci aspetterà. Tutti gli Stati membri sono d’accordo: è il momento di passare all’azione» ha detto la von der Leyen il 29 gennaio 2025 presentando le nuove linee guida per rilanciare l’economia della Ue.

L’invito a usare i fondi per la coesione a favore del riarmo trova la sua ragione nella prospettiva indicata dalla presidente della commissione Ue e nelle previsioni dell’Istituto di analisi economica IfW Kiel che magnificano gli effetti delle spese militari sulla produttività e l’innovazione tecnologica o della società di consulenza Ernest & Young che prevede la crescita dell’occupazione.

Evidenze contestabili citando altri studi e approfondimenti, come il rapporto commissionato da Greenpeace o le recenti dichiarazioni fatte dal governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta.

Nel frattempo, nella Germania dove la von der Leyen è stata ministro della Difesa, la multinazionale Rehinmetall ha già deciso di riconvertire il sito produttivo di Berlino e quello di Neuss dal settore auto a quello bellico. Il cancelliere tedesco in pectore, Josef Merz della Cdu, ha promesso di aumentare gli investimenti in armi raddoppiando i 100 miliardi già stanziati dal socialdemocratico Scholz.

In Italia, ovviamente, plaude al piano di riarmo l’amministratore delegato di Leonardo Roberto Cingolani, ex ministro della Transizione ecologica, ripetendo la tesi secondo cui «è meglio un po’ di deterrenza che essere invasi e non avere gli strumenti per difendersi. Trump sta dicendo: non possiamo pagare per difendere l’Europa, datevi una mossa». È di queste ore, ad esempio, l’alleanza tra Italia e Turchia per la costruzione di droni militari, una tecnologia in cui il nostro partner ha dimostrato grandi competenze, come dimostra la fornitura dei droni kamikaze usati efficacemente dall’esercito azero nel conflitto con l’Armenia.

Ma la leadership europea nel campo del riarmo l’ha rivendicata il presidente francese Macron in un appassionato discorso alla Nazione dove ha affermato che il suo Paese è pronto ad affrontare la sfida della deterrenza e dell’eventuale conflitto bellico grazie al piano di riarmo già avviato e al possesso dell’arma nucleare fortemente voluta da De Gaulle. È nota infatti la concorrenza tra Italia e Francia nel mercato internazionale delle armi, mentre non è stata mai affrontata la triste eredità per l’Europa e l’Italia della guerra in Libia fortemente sostenuta dai francesi nel 2011.

Nel suo attivismo, Macron, sul quale pende la scadenza delle prossime incerte elezioni presidenziali, ha convocato gli stati maggiori dei Paesi europei disponibili ad inviare truppe in Ucraina secondo regole di ingaggio tutte da definire. Si prevede, infatti, che entro Pasqua Trump faccia approvare, tramite l’accordo diretto con Putin, il piano Kellog di cessate il fuoco in Ucraina, che avrà bisogno di una forza di interposizione e garanzia.

Le mosse di Macron sono indigeste per il governo italiano al cui interno la Lega di Salvini, alleato in Europa con Marine Le Pen e sostenitore convinto di Trump, non ha timore ad esprimere aspre critiche al piano di riarmo europeo denunciandone la contraddizione: «Non abbiamo potuto fare debito per investire in sanità, educazione, sostegno alle imprese e alle famiglie, ma per riarmare l’Europa con 800 miliardi sì?».

Il leader leghista considera la manifestazione dell’orgoglio europeo lanciata da Repubblica una “manifestazione per la guerra” voluta dalla sinistra «mentre tanti italiani chiedono pace, serenità e lavoro».

L’invito di Michele Serra, già storico direttore del foglio satirico Cuore, a “dire qualcosa di europeo” ha il merito di aver aperto un dibattito sul ruolo geopolitico dell’Europa. Cosa verrà detto il 15 marzo? La regia logistica della manifestazione è affidata al sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, ma appare ancora indefinita la linea politica, oltre l’obbligo di esporre solo bandiere dell’Unione europea senza altri vessilli, che siano quelli dei partiti o quello arcobaleno della pace.

Le Acli, ad esempio, hanno aderito da subito alla manifestazione del 15 marzo, facendo seguire un comunicato che non si allinea al piano di riarmo di von der Leyen.  Molte sono le adesioni spontanee che si rifanno alla necessità di mettere in campo gli Stati Uniti d’Europa e l’obbligo morale di non abbandonare l’Ucraina.

Il presidente di Pax Christi, il vescovo Giovanni Ricchiuti, assieme ad altri esponenti del pacifismo italiano, invita, invece, a non aderire alla “piazza europea” per ribadire il no al riarmo. Un articolato comunicato di Rete italiana pace e disarmo afferma che «l’Europa deve agire come una vera comunità politica, democratica ed economica dentro un sistema multilaterale e non di blocchi politico-militari che competono e si reggono sulla deterrenza militare».

È chiaro che ogni discorso sull’Europa rimanda ad un argomento solitamente rimosso dal dibattito pubblico e cioè il rapporto con la Nato e la distinzione possibile tra atlantismo ed europeismo. In un recente intervento dell’economista statunitense Jeffrey Sachs, da sempre critico verso la politica Usa nel conflitto in Ucraina, si sostiene la necessità che sia l’Europa ad aprire colloqui diretti con la Russia per arrivare ad una pace in Ucraina che «dovrebbe essere seguita dalla creazione di un nuovo sistema di sicurezza collettiva per tutta l’Europa, che si estenda dalla Gran Bretagna agli Urali e, in effetti, oltre».

Una forte critica al Re Arm Europe arriva dall’Osservatore Romano, quotidiano della Santa Sede, con un editoriale di Andrea Tornielli in cui si afferma che l’Europa «è sembrata in grado soltanto di rifornire di armi l’Ucraina ingiustamente aggredita dalle truppe russe, ma non di proporre e perseguire, al contempo, concrete vie negoziali per mettere fine al sanguinoso conflitto». «Non li investe, (i soldi, ndr) per combattere la povertà, per finanziare programmi in grado di migliorare le condizioni di vita di chi fugge dai propri Paesi a causa di violenze e miseria, per migliorare il welfare, l’educazione e la scuola, per garantire un futuro umano alla tecnologia, né per assistere gli anziani. Li investe per gonfiare gli arsenali e dunque le tasche dei fabbricanti di morte, nonostante già oggi la spesa militare dei Paesi dell’Unione superi quella della Federazione Russa. È davvero questa la via da seguire per assicurare un futuro di pace e prosperità al Vecchio Continente e al mondo intero? Davvero la corsa al riarmo ci garantisce? Davvero è qui la chiave per ritrovare le nostre radici e i nostri valori?».

«L’unico vero piano, l’unico realistico appello da lanciare oggi, al posto di «Rearm Europe», non dovrebbe piuttosto essere «Peace for Europe»? Lo chiediamo facendo nostre le parole del Papa che dalla stanza del Policlinico Gemelli domenica scorsa ha detto: «Prego soprattutto per la pace. Da qui la guerra appare ancora più assurda»».

Una chiara presa di posizione accompagnata nell’organo ufficiale del Vaticano, da un lungo articolo che pone in evidenza il magistero di Francesco su guerra a riarmo. Una chiarezza che corrisponde alla nettezza della politica espressa da von der Leyen e che conduce, secondo alcuni, la Chiesa ad un forte isolamento anche nel “vecchio continente”, dopo che Francesco si è già esposto negli Usa invitando i vescovi ad opporsi alle pratiche disumane della deportazione dei migranti e non solo, o quando già nella prima presidenza Trump affermò l’orrore verso l’uso di un ordigno letale definito la “madre di tutte le bombe”.

La domanda che si pone oggi è: chi può interpretare e dare voce in maniera credibile ad una politica  in grado di promuovere una politica alternativa al riarmo, definito ineludibile anche da parte di voci che un tempo si definivano pacifiste?

Dalla laica Fondazione Basso è stato  lanciato un «appello a tutte le organizzazioni della società civile a incontrarsi per una comune iniziativa verso la via della pace che possa essere seguita dai popoli e dai governi entro una prospettiva multipolare e rispettosa delle diversità di tutti. C’è bisogno di ritrovare un nuovo equilibrio nel mondo che non sia quello preannunciato di un nuovo imperialismo globale dettato dal dominio della forza degli Stati più potenti e, spesso, più arroganti».

 

 

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