Kadaré e quella telefonata tra Stalin e Pasternak

La traduzione italiana dell’ultima opera del massimo poeta e scrittore albanese lo ripropone al pubblico come irriducibile oppositore della prepotenza del male e di ciò che offende la dignità dell’uomo
Lo scrittore albanese Ismael Kadaré, foto Ansa, EPA/ARDUINO VANNUCCHI

Il primo luglio del 2024 si è spento a 88 anni a Tirana Ismail Kadaré. Nelle foto ufficiali colpiva quella sua aria malinconica, quasi dolente. E davvero lo scrittore albanese più conosciuto a livello internazionale e più volte candidato alla selezione finale per il premio Nobel sembrava portare su di sé il peso della sofferenza di un popolo, il suo, con tutti i segni di antiche e recenti tragedie.

Molte, infatti, delle sue opere, contenevano attacchi al regime totalitario comunista al potere in Albania nella seconda metà del Novecento. Notissimo anche in Italia per romanzi quali I tamburi della pioggia, La città di pietra o Il generale dell’armata morta – per citare quelli forse in cui ha raggiunto gli esiti più alti –, il poeta e scrittore di Argirocastro da anni ormai si divideva tra la Francia, dov’era riparato esule, e la capitale albanese, intento a portare avanti la sua “missione” di scrittore dal forte impegno civile, contro ogni forma di totalitarismo e ogni ingiustizia.

Musulmano, Kadaré era convinto del contributo di tutte le religioni per scongiurare altre tragedie all’umanità, dopo quelle del XX secolo. Difensore della pace e di tutte le minoranze etniche, riteneva incompatibili letteratura autentica e dittature. Né poteva essere diversamente per un autore del suo stampo, per il quale scrivere tenendo conto della dignità dell’uomo era fatica logorante, anche spiacevole se si vuole, perché si era costretti, spesso, a opporsi al male, a pronunciare parole urtanti che ti si potevano ritorcere contro. Come Cassandra o come uno degli antichi profeti. Di qui, anche, la sua polemica nei confronti dei facili scrittori che banalizzano la loro nobile arte con prodotti di pura evasione, destinati all’oblio nel giro di qualche settimana.

L’ultimo suo libro, uscito in Francia nel 2022 e lo scorso settembre anche in Italia col titolo Quando un dittatore chiama (Ed. La nave di Teseo), arriva a confermare una volta di più la scomoda fedeltà dell’autore agli umiliati e offesi dai prepotenti di turno. Con la prosa scabra a lui solita, Kadaré cerca qui di ricostruire la verità di una telefonata di appena tre-quattro minuti, origine però di ben tredici versioni, fatta il 23 giugno 1934 da Iosif Stalin, capo supremo della Russia sovietica, al grande poeta Boris Pasternak, inizialmente blandito e poi caduto in disgrazia come “reazionario”. In essa il sanguinario dittatore chiedeva al futuro premio Nobel (per il romanzo Il dottor Živago del 1958) il suo parere in merito al collega e amico poeta Osip Mandelst’stan, il cui recente arresto dietro suo ordine – disgustato per una poesia, anzi per un solo verso di essa interpretato in modo malevolo nei suoi confronti – era in quel momento sulla bocca di tutti. Pasternak, raggiunto nella sua abitazione moscovita da quella telefonata dal Cremlino, azzardò – ovviamente sconvolto – una risposta che però non soddisfece Stalin, tant’è che si sentì chiudere il telefono in faccia.

Kadaré parte da questo episodio secondario, anche se ha dato origine a discussioni mai del tutto placate, solo per verificare quanto a lui è sempre stato chiaro: l’insanabile opposizione tra dittatori e artisti, questi ultimi i più presi di mira dalla censura perché simbolo di creatività, di libertà, lasciati fare quando per sopravvivere si piegavano ai fini del partito ma, se irriducibili, spietatamente eliminati.

«L’arte – annota lo scrittore – spaventava i comunisti. Le direttive dei loro più grandi capi, inclusi Lenin e Marx, erano così sottili che migliaia di funzionari della cultura si spremevano le meningi giorno e notte per capire cosa Lenin avesse voluto dire nel suo unico scritto sulla letteratura: Organizzazione del partito e letteratura del partito. Per quanto strano potesse sembrare, nessuno osava sostenere che la causa di quell’incomprensione era dovuta a ciò che in quel libro, ordinario e noioso, l’autore stesso probabilmente ignorava, ovvero di quale letteratura si parlava: di pamphlet e trattati del partito o della letteratura così come normalmente la intendiamo. Inoltre, una consultazione dell’opera di Karl Marx era sufficiente per capire che l’uomo che aveva consacrato la sua vita al rovesciamento dell’ordine mondiale precostituito, non aveva dedicato neppure mezza pagina delle sue numerose opere alla disperazione e al pentimento che può suscitare lo spargimento di sangue. Non ricordarsi di questo, non significava soltanto non avere capito nulla di Omero e di Dante, ma ancora peggio. Si poteva dire che Karl Marx aveva prospettato all’uomo la grande carneficina ma senza aggiungere, quantomeno, la semplice e umana raccomandazione: fate attenzione al senso di colpa!».

Sì, ma come andarono effettivamente le cose con la famosa telefonata? Come in un giallo investigativo Kadaré analizza punto per punto le versioni a disposizione, fornendo di esse le «diverse e altrettanto inebrianti interpretazioni opposte», giunte a produrre «incomprensioni e nebbie che sarebbero perdurate per decenni. Simultaneamente presente in due sfere impossibili l’una per l’altra, la storia – conclude l’autore – darà a tutti filo da torcere per la sua impossibilità. Sarà un campanello d’allarme per tutto quello che impedisce sempre alla coscienza umana di assopirsi».

 

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