Milano, un atlante aperto sul mondo    

Il 27% di residenti con background migratorio, gli 80.000 “nuovi cittadini”, le seconde generazioni. La città apripista della società plurale. La “Rete Scuole Senza Permesso”. I giovani con doppia cittadinanza
Milano Galleria Vittorio Emanuele il vicino il Duomo ANSA/MATTEO CORNER

L’epiteto “terrone” a Milano non si usa più. Eppure ha connotato un’epoca.  Fu registrato per la prima volta nel 1950 nel Dizionario Moderno di Alfredo Panzini: «Terrone: così gli italiani del settentrione chiamano gli abitanti delle regioni meridionali».  Con le migrazioni interne del secondo dopoguerra ha avuto da subito un significato spregiativo, rivolto agli immigrati arrivati in massa nel triangolo industriale, 4 milioni in 20 anni. Per oltre la metà si fermarono nel capoluogo lombardo e nel suo hinterland, al richiamo delle grandi fabbriche affamate di manodopera: Breda, Falk, Alfa Romeo, Pirelli, Montecatini, di cui oggi rimangono imponenti vestigia, trasformate in atelier di moda, sedi universitarie, musei, centri commerciali.

Le cronache dell’epoca riportano un’atmosfera di continua tensione fra residenti storici e nuovi arrivati, ritenuti estranei al tessuto sociale della città ed etichettati come arretrati, poco istruiti, irrispettosi delle regole. Trovavano impiego in lavori umili, trattati peggio dei “locali”; non era raro leggere annunci con la dicitura “Non si affitta ai meridionali”.

Ma questo è il passato remoto.  I milanesi DOC di oggi sono il risultato di una trasformazione sociale nemmeno tanto lenta, tre-quattro generazioni, che ha mischiato fisionomie, carnagioni, dialetti, tradizioni, ricette di cucina, per arrivare a una società inedita.  È difficile trovare un giovane che non abbia genitori, nonni o bisnonni di origine meridionale (o veneta). Così il termine “terrone” ha perso il suo significato tagliente, è relegato all’ironia, non fa più male.

Di generazioni ne sono passate due da quando, a partire dal 1980, è iniziata la seconda ondata migratoria, questa volta dall’estero. In quell’anno, a Milano gli stranieri iscritti all’anagrafe erano 22.000. I più numerosi: gli svizzeri, i tedeschi, gli inglesi cioè professionisti, dirigenti, imprenditori che nessuno considerava immigrati (la ricchezza sbianca) … Gli egiziani un migliaio, i filippini trecento. Inezie, ma le nazionalità presenti erano già un centinaio e l’Associazione Arcobaleno potè organizzare quel laboratorio di fraternità che fu il Mundialito, torneo di calcio a 24 squadre nazionali: ebbe sei stagioni e grande risalto in città.

Come in un cliché, a mezzo secolo dal primo, il processo dei nuovi arrivi si è ripetuto: ancora fabbriche, aziende, famiglie pronte a dare un lavoro e ancora immigrati a cercarlo. Oggi quelli con regolare permesso di soggiorno sono il 21% della popolazione totale, molto più di Roma, il triplo di Napoli, il quadruplo di Palermo. Milano avanguardia, dalla quale estrarre tendenze e cambiamenti.  Un dato per niente evidenziato è il numero di coloro che nel tempo hanno ottenuto la cittadinanza italiana: sono 80.000. Lo scorso anno furono 25 al giorno! Ciò porta la percentuale di abitanti con background migratorio al 27%.

Non stupisce che nel corso di una metamorfosi tanto tumultuosa si siano ripresentate le stesse problematiche della prima ondata, acuite dalla molteplicità delle lingue, delle provenienze, delle religioni; dalla mancanza di una visione politica nazionale ed europea che tenga insieme i fattori economici, securitari, demografici dei paesi avanzati con il diritto degli individui a muoversi e – in molti casi – a chiedere protezione.

La narrazione si concentra sugli aspetti eclatanti del cambiamento, seri ma statisticamente contenuti: le baby-gang, lo spaccio, l’accattonaggio, le condizioni misere di certi rioni. Si alimenta un clima di paura, i governi dispongono misure drastiche: l’aumento della spesa per il contenimento dei flussi, i respingimenti, i rimpatri; la riduzione di quella per i centri di accoglienza, i servizi, la formazione.

Inclusione

Se le politiche dichiarate sono queste, le “pratiche effettive” [3] sono però molto diverse ( cfr “Governare città plurali – a cura di Maurizio Ambrosini, ed. Franco Angeli”).A Milano, e in numerose altre città, l’Amministrazione è impegnata attivamente per favorire l’inclusione sociale dei migranti, come dimostra la recente apertura del Milano Welcome Center che offre servizi a 360 gradi. Comunità etniche, centri religiosi di aggregazione cristiani, islamici, induisti, organizzazioni del Terzo Settore per l’accoglienza e la formazione creano un processo “dal basso” grazie al quale il percorso di cittadinanza nasce e si sviluppa senza discontinuità.

A rimuovere il primo scoglio, la lingua, contribuiscono decine di scuole gratuite. La sola Rete Scuole Senza Permesso costituita da 32 organizzazioni di molteplici ispirazioni ideali, ha 600 insegnanti volontari e 6.000 iscritti ogni anno.

Ma c’è qualcosa di più impalpabile che inocula, senza che nemmeno ci si accorga, il vaccino della tolleranza: i rapporti di prossimità e le occasioni di incontro. Un viaggio in metropolitana è un atlante aperto sul mondo. La badante di tua nonna, il rider con la spesa, il pizzaiolo egiziano all’angolo, l’idraulico rumeno, la collega ucraina, l’infermiera peruviana, i compagni di classe magrebini dei tuoi figli… quando il numero dei contatti supera una certa soglia l’occhio non nota più le differenze.

A Milano ciò avviene, si può parlare di una rassicurante normalità? Certamente esistono manifestazioni di disadattamento, piccola criminalità, fragilità insite in mutamenti tanto profondi, ma gli anticorpi per contrastarle ci sono, anche all’interno delle comunità immigrate. Lo si è capito dall’episodio tragico di Rami – il ragazzo morto nel corso di un inseguimento notturno – e dalla reazione del padre: con un comportamento esemplare ha potuto calmare gli animi più degli schieramenti di polizia.

Giovani

E dei giovani che cosa dire? Nella scuola pubblica quelli con background migratorio sono un quarto, in gran parte nati e cresciuti in Italia.  Costituiscono il gruppo sociale più interessante, pongono problematiche alle quali il sistema dell’istruzione non ha per ora risposto (come evitare la segregazione scolastica, classi col 100% di alunni figli di migranti? Come ridurre la dispersione, tripla rispetto ai ragazzi italiani?), interrogano sui metodi e sui contenuti, in particolare per alcune materie trattate solo dal punto di vista “occidentale”. Ad esempio la storia: insistere sulle guerre puniche o inoltrarsi nelle grandi civiltà precolombiane, arabe, orientali? Ad esempio la filosofia: quanti Telesio vale un Confucio?

È la generazione che si affaccia alla vita adulta, la Milano prossima ventura. Giovani che in numero crescente hanno doppia cittadinanza e due modelli culturali – quello da cui provengono e quello che trovano fuori dalla porta di casa – fra i quali stare in equilibrio, sebbene sollecitati ad “integrarsi”, lasciarsi “includere”, farsi “assimilare” a seconda delle teorie sociologiche. Forse si dovrebbe riflettere su questi termini, ciascuno dei quali nasconde una forzatura, una rinuncia, un tradimento.

C’è un lavoro di Picasso, ripreso come manifesto della mostra “Picasso. Lo straniero”, nel quale tre volti stilizzati rappresentano le identità dell’artista: quella spagnola della nascita, quella francese che gli fu preclusa, e al centro quella costruita nel corso della vita di migrante, un viso meticcio sorridente che meglio interpreta la condizione del tutto singolare di essere ponte fra le altre due.

I ragazzi e le ragazze più preparati di seconda generazione sperimentano e portano avanti questo ruolo.  Sanno di innestare nella società sensibilità, speranze, motivazioni di radice “aliena”, spesso in sintonia con la popolazione giovanile autoctona, come accade per la musica; sono consapevoli di rappresentare culture, mentalità, costumi che contribuiscono al processo di ibridazione del contesto sociale e si organizzano in associazioni, rivendicando una propria legittimità anche con campagne di comunicazione e mobilitazioni politiche.

La ricerca italiana ha colto la complessità delle traiettorie, ma è ancora incompleta l’analisi globale delle diverse tematiche, anche in relazione ai percorsi adulti di questi giovani. C’è da augurarsi che gli elementi di maggior criticità presenti nella scuola e nella formazione vengano ridimensionati, in modo che anche ai giovani con radici migratorie sia reso possibile contribuire in modo pieno all’economia, al pensiero, al benessere della società plurale verso la quale ci siamo avviati.

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