La terra dei santi. Un film per capire le radici dell’ndrangheta
Il 26 marzo esce La terra dei santi di Fernando Muraca, un film teso ed intenso sulla 'ndrangheta. Nel cast, tra gli altri, ci sono Valeria Solarino e Ninni Bruschetta: la prima interpreta un magistrato sceso in Calabria dal Nord, il secondo è un poliziotto nato al Sud, che in una terra avvelenata dal potere criminale ha scelto di stare dalla parte dello Stato.Con l'importante attore italiano abbiamo parlato del film, cominciando proprio da Domenico, il suo personaggio.
«Descrivere i personaggi è sempre complesso. Prendo una frase di Claudio Fava, un uomo segnato dalla mafia, visto che suo padre, il giornalista Giuseppe Fava, è stato assassinato da cosa nostra: “Non bisogna fare l'errore di chiamare eroi i carabinieri che difendono lo Stato contro la mafia – diceva il figlio del giornalista – a volte dando la vita, perché così si autorizzano i loro colleghi a non rischiare. Il compito di chi fa quella scelta è di mettersi frontalmente contro la mafia”. Ecco, Domenico rispecchia questa figura di antieroe: ha paura, ma sente da che parte sta la giustizia, e fa onestamente il suo lavoro».
Nel film ci sono un magistrato, dei poliziotti che lo proteggono e dei criminali che lo vorrebbero morto. Ma è difficile definire La terra dei santi un film poliziesco. E' soprattutto un viaggio nelle dinamiche familiari e culturali della ‘ndrangheta.
«Quando l'ho visto, l'ho definito un film tedesco, perché é asciutto ed entra perfettamente in ciò che viene detto e nei personaggi. E' un film che indaga su una cultura, ed è prima di tutto un film sulla Calabria, un grande omaggio a questa terra e al suo dolore».
Di 'ndrangheta ha parlato di recente anche Anime nere di Francesco Munzi, un film tutto al maschile, mentre La terra dei santi è molto centrato sulle donne.
«La donna, nel sistema malavitoso calabrese, diventa addirittura autoritaria, nel senso più politico del termine. Si tratta di un'autorità di sottomissione che nasce però da una scelta precisa, consapevole, che crea una collusione totale col potere violento degli uomini. C'è una complementarietà totale tra uomo e donna. Il film di Fernando racconta molto bene tutto questo».
Il regista è calabrese. Quanto ha contato questo nel film?
«Molto. Fernando è riuscito ad approfondire aspetti importanti del fenomeno criminale, come il matriarcato e la religione. Non credo sia un caso che i più grandi film sulla mafia siciliana siano stati realizzati da uomini con un cognome del Sud Italia. Penso a Coppola e a Scorsese. Chi narra deve essere in grado di comprendere il racconto, soprattutto se narra una cultura. Tutti i grandi narratori hanno raccontato la loro terra. Io non potrei mai raccontare la storia di un vichingo».
Tolstoj diceva, racconta ciò che conosci e sarai universale..
«Con ironia, lo diceva anche Truffaut. Gli chiedevano se i suoi film fossero autobiografici, e lui rispondeva che bisogna parlare di noi stessi, perché è l'unico argomento che conosciamo veramente».
Nel film, come accennavi, si parla del rapporto tra 'ndrangheta e religione. Viene detto che in Calabria sono tutti religiosi, tanto che i greci avevano ribattezzato quella regione “la terra dei santi”. Ma il magistrato aggiunge che gli 'ndranghestisti sono piuttosto dei santisti. Che cosa voleva dire?
«Il magistrato ha ragione. Si tratta di un uso sbagliato della religione, in cui rimane solo la forma, il simbolo è svuotato dei suoi significati più profondi, di ogni supporto spirituale, morale ed etico. Rimane solo l'aspetto puramente estetico, senza i codici di comportamento originali. La criminalità adopera il simbolo per costruire un'unione. Attraverso quest'uso della religione si possono tenere sotto scacco tantissime persone».
Puntando anche sull'ignoranza…
«L'ignoranza è il punto di riferimento assoluto della mafia. Se c'è un concorso, diceva Borsellino, e ci sono un raccomandato, un cretino e uno bravo, tra i tre vince il cretino, perché la mafia vuole questo».
Cosa hai imparato di nuovo sulla 'ndrangheta attraverso questo film?
«Disgraziatamente conoscevo bene l'argomento già prima del film, avendo anche origini calabresi. Da ragazzino conobbi storie di insegnanti che pagavano un pizzo di protezione per andare a insegnare nei paesi, per prendere il treno in tranquillità. Oggi la 'ndrangheta è passata da un controllo totale del territorio ad un potere e a una ricchezza gigantesca e spaventosa favorita dallo spaccio di stupefacenti, dove è maestra assoluta. La 'ndrangheta non ha pentiti, ma non credo dipenda dal carattere particolarmente omertoso dei calabresi, quanto da una profonda debolezza dello Stato. In Calabria manca addirittura lo scontro, la 'ndrangheta controlla il territorio da molti anni, prova ne è che il film sia stato girato altrove per volere delle istituzioni locali».
C'è qualcosa del film che ti ha riportato alla Calabria delle tue origini e dei tuoi ricordi?
«Il momento del matrimonio, con un gruppo di persone sparute. Mi ha ricordato ciò che vedevo da bambino, una terra con poca gente».
Che problemi ha creato il fatto di non aver potuto girare in Calabria?
«Problemi anche su un piano esclusivamente narrativo: non si è potuto lavorare sul contrasto tra la bellezza ed il dolore, che come dicono i grandi sceneggiatori americani è la chiave della sceneggiatura, la prima regola. Non è stato possibile farlo perché una cultura ostile non lo ha permesso, preferendo che fosse raccontato solo il dolore. Ora ci sono piccoli barlumi di speranza, dovuti ad un lavoro eccezionale della magistratura».
A proposito di speranza, la sensazione, vedendo il film, è che quella condizione di impotenza che si respira in molte pellicole sulla mafia sia qui quanto meno più attenuata…
«Questa interpretazione fa passare una speranza, testimoniando che nelle opere d'arte filtra la volontà dell'artista più di quello che si vede. Tu vedi il cuore del regista, la sua passione, il suo desiderio, ma nel racconto, secondo me questo non c'è. Nel film vince una persona, il magistrato, una donna su un'altra donna, un modello femminile su un altro. Ma lo stato non vince. La frase finale e l'ultimo primo piano di lei, non dichiarano una vittoria, piuttosto un grido d'aiuto, più che di speranza».
Il magistrato, per impedire un tragico destino e per fare in modo che una donna di 'ndrangheta collabori con la giustizia, decide di toglierle la patria potestà sui figli, e di affidarli ai servizi sociali…
«E' un'accelerazione della magistratura, ed è uno dei momenti più drammatici del film. Io non mi sento di non condividere quel gesto, e so benissimo che è una forzatura. Vittoria fa un passo in più, adopera nuovi mezzi di convinzione e coercizione nello stesso tempo».
Il Sud è solo quello del film?
«Il Sud, purtroppo, è quello che rende famoso il magistrato bravo. Questo è il problema fondamentale. E' un aspetto che ho incontrato tutte le volte che ho raccontato la mafia. Io stesso, nel film Il giudice ragazzino di Alessandro Di Robilant, interpretavo un magistrato che si metteva di traverso. La magistratura è un ambiente professionale come un altro e in tutti i mestieri le persone oneste e capaci sono poche, solo che quello del magistrato è un mestiere molto delicato, e se non sei onesto e fai questo lavoro è un grave problema: si possono fare molti danni, c'è in ballo la vita di molte persone».
Perché ci sono voluti due film recenti per cominciare a parlare di 'ndrangheta?
«Un po' perché il racconto stesso della ndrangheta è qualcosa di nuovo, e un po' perché la Calabria, purtroppo, è una terra abbandonata, una regione che non si è mai risvegliata. Non c'è più nulla in Calabria, nascono alberghi e dopo cinque anni sono abbandonati. I calabresi se ne sono andati tutti e questo, naturalmente, si avverte anche nel cinema».
Che potenziale offrono, il cinema e la fiction nel combattere la piaga della mafia? Possono essere validi strumenti di sensibilizzazione? Possono essere armi preziose?
«La tragedia è un terreno narrativamente fertile, è catartica e per ciò insegna. E' valida per raccontare sia le culture che l'essere umano. E' importante che il cinema e la televisione tocchino questo argomento, meglio se lo fanno mantenendo alta la qualità narrativa e l'aspetto artistico, evitando gli eccessi documentaristici o gli instant movies che cavalcano la tigre della notizia. Il pericolo della pornografia è sempre in agguato».
Cosa hai apprezzato maggiormente del modo di lavorare con Fernando Muraca?
«Lavorare con Fernando è piacevole, perché lui gira molti piani sequenza, che sono il paradiso dell'attore che ama recitare, mentre l'attore che ama guardarsi allo specchio predilige il primo piano. In questo film, lo dico con grande sincerità, c'era un cast di attori decisamente fantastico, e quando stai in scena con tanti attori bravi e giri di seguito, è come fare teatro».