Covid: vademecum per la fase 3
Dopo 86 giorni, cade l’ultimo impedimento alla libera circolazione all’interno del nostro Paese, chiudendo un periodo unico nella storia recente; si apre una nuova fase della lotta con il virus, non certo facile né priva di insidie.
Forse ancora di più che nei giorni drammatici della crescita dei casi, è cruciale la disponibilità di informazioni chiare e regole precise. Proviamo a guardarci intorno, alla ricerca di certezze.
Anzitutto: la situazione è veramente migliorata?
La risposta è sì, con alcune riserve. I dati del monitoraggio dei casi e dei ricoveri indicano una riduzione ormai stabile di entrambi, che riguarda l’intero Paese. Ma ci sono molti elementi che obbligano alla prudenza.
La “coda” dell’epidemia, come previsto, è molto allungata: i malati e soprattutto quelli che necessitano di assistenza ospedaliera guariscono lentamente e la possibilità di nuovi contagi è sempre alta.
Inoltre ci sono ancora enormi differenze nella presenza di malattia nella popolazione fra una regione e l’altra, cosa che pone più di una preoccupazione per la prossima fase, di libera circolazione, e impone di tenere alta la guardia. Purtroppo non ci sono ancora regioni italiane dove si possa dichiarare esaurita la pandemia: questo avviene, secondo l’OMS, quando in una zona non si verificano nuovi casi per il doppio del periodo di incubazione della malattia (in questo caso, per 28 giorni).
Come sappiamo (se ne è discusso anche nel precedente articolo) la capacità attuale di testare rapidamente e condividere i dati epidemiologici ha molti punti deboli e si può fare molto per migliorarla: questo, secondo molti osservatori, è il nostro principale punto debole.
È vero che il virus ha perso forza?
Ci sono state numerose dichiarazioni, alcune francamente sconsiderate, sulla presunta mutazione o addirittura inattivazione del virus che sarebbe avvenuta con l’inizio della bella stagione. Come ben sanno i medici che prendono in cura i nuovi casi in ospedale – fortunatamente pochi – le cose non stanno affatto così.
Come tutti i patogeni di questo tipo, anche il coronavirus ha una stagionalità ed è vero che, nel periodo attuale, i nuovi casi sembrerebbero mediamente più lievi di quanto avveniva in inverno. Ciò può essere dovuto al fatto che si intercettano più in fretta i contagiati e veniamo a conoscere anche i pazienti meno gravi, mentre nella prima fase emergevano solo coloro che avevano bisogno di assistenza in ospedale.
Ma c’è anche (ed è una buona notizia) una ridotta capacità del virus di sopravvivere nell’ambiente esterno, per via del maggior calore e della minore umidità: se un soggetto contagioso tossisce o respira vicino a noi, le particelle virali ci raggiungono, direttamente o tramite le superfici di contatto, all’interno delle goccioline di saliva emesse dal portatore. Quando fa caldo queste si asciugano molto prima e il numero di particelle che ci infettano è minore: ciò potrebbe spiegare perché i casi attuali sono più lievi.
È necessario stare lontani ed usare la mascherina?
Attenzione però: anche se i potenzialmente infetti diminuiscono e il caldo rende più difficile la sopravvivenza del microrganismo, il rischio rimane e proteggersi è essenziale.
Per questo motivo, anche durante le prossime settimane, sarà indispensabile continuare a mantenere la distanza di almeno 2 metri dagli altri (a meno di persone già conviventi) e usare la mascherina dovunque sia possibile farlo: questo è sufficiente ad assicurare una buona protezione dal rischio, come dimostra una dettagliata e approfondita review sulla rivista Lancet.
Insegniamo a farlo anche ai più piccoli, magari con modalità che ricordano il gioco; loro sono i primi ad imparare e rendere “naturali” le nuove regole dell’interazione sociale e la loro capacità di abituarsi può essere una risorsa per tutti.
Disinfettare e lavarsi le mani è utile?
Oltre a questo, rimane essenziale l’igiene delle superfici e soprattutto delle mani, che deve essere effettuata scrupolosamente e ad ogni occasione di contatto con superfici potenzialmente contaminate: mezzi pubblici, maniglie, pulsanti e altri oggetti di uso collettivo. Anche qui, è bene chiarire che c’è una bella differenza fra individuare delle particelle di RNA virale in un pezzo di plastica dopo 7 giorni, e contagiarsi toccandolo!
Ma è vero che, soprattutto in luoghi umidi e poco arieggiati, le superfici possono essere contaminate da tosse e starnuti (pensiamo al bancone di un bar o allo sportello di un ufficio). Di qui, l’importanza di disinfettare mani e superfici, e con prodotti efficaci (ricordando che sono le mani a portare nella cavità orale o nelle congiuntive ciò che sopravvive sulle superfici, e quindi disinfettarle è la base)
Indicazioni chiare si trovano sul rapporto ISS-COVID n° 25 che spiega chiaramente quali disinfettanti usare per le comuni superfici: alcool al 70%, cloro allo 0,1% (corrisponde ad una diluizione 1:45 di comune candeggina) o disinfettanti a base di ammoni quaternari. Per il vestiario, il lavaggio superiore a 70°C, eventualmente con additivo disinfettante, è una garanzia sufficiente.
Come finirà?
Abbiamo visto che, con po’ di attenzioni e di regole, gli strumenti per proteggerci e tenere a bada la malattia non ci mancano. Questo anche se, purtroppo, non sembrano esserci all’orizzonte soluzioni definitive, almeno nel breve periodo: la strada per un vaccino è lunga, mentre sul versante delle terapie, nessuno dei molti protocolli di ricerca in corso ha ancora dato risultati incoraggianti.
Lo scenario più probabile è sempre quello di una fase di convivenza con il COVID che durerà sicuramente diversi mesi, costringendo le comunità a rivedere abitudini, regole, strategie e priorità: la sfida del cambiamento più grande, dopo il settore sanitario, aspetta una risposta dal mondo della scuola, settore che appare il grande assente nella discussione pubblica e dove regna un silenzio sempre più imbarazzante.
Non ci sono ricette risolutive, non ancora; ma una cosa la stiamo imparando, in questi giorni: il bene comune non si misura con il PIL.