Un Sanremo mai visto (e già sentito)
Abbiamo tutti bisogno di farci coraggio e di distrarci in questo mondo sbalestrato dal Covid, e Sanremo ha sempre assolto più o meno dignitosamente a questa sua vocazione tranquillizzante: ogni volta con una nuance un pochino diversa, ma in buona sostanza, con una formula che continua a funzionare (oltreché a cooperare non poco a far quadrare i bilanci aziendali) proprio in virtù del suo saper sopravvivere a prescindere. Ché in questi mesi s’è rinviato e sprangato di tutto, ma non il vessillo più sfavillante dell’italianità nazional-popolare.
Un Festival per congiunti, allegramente gestito da due congiunti de facto perfetti per complementarietà, due campioni di verve (Fiorello) e bonomia (Amadeus). Ma cos’altro ci ha detto la serata inaugurale? Innanzi tutto che quest’anno le canzoni – nonostante la consueta trasversalità stilistica – hanno quasi tutte un baricentro poetico iper-sentimentale. Era facile attendercelo, anche se qualche guizzo creativo in più l’avremmo apprezzato. Non a caso a Sanremo le canzoni necessitano, e da tempo, di sostanziose siringate di contorni per venir digerite, e anche qui tocca essere trasversali, da Ibra all’infermierina simbolo, dall’elegia del bacio della garbata ospite di corvée, Matilda De Angelis, all’appello per la liberazione di Patrick Zaki.
Ciò non significa, ovviamente, che anche quest’anno il Festivalone nostro non metta in vetrina discrete canzoni e personaggi funzionali al contesto. Nonostante l’assenza dei superospiti stranieri – bloccati a casina dai diktat pandemici – l’offerta sonora è parsa complessivamente accettabile anche se orfana di picchi memorabili.
L’Annalisa (vincitrice della prima sessione) e l’accoppiata Michielin-Fedez e magari Ermal Meta che scenderà in campo stasera, sembrerebbero partire coi favori del pronostico, Colapesce & Dimartino sono gli outsider che potrebbero rivelarsi la sorpresa dell’anno, i Coma_Cose la proposta più spiazzante, la carriera del talentuoso Fulminacci o magari quella di Madame (la più giovane e la più carismatica del lotto) e di Fasma (ieri sorprendente terzo), alla lunga potrebbero qui trovare una definitiva consacrazione. Sottolineando che – anche se può sembrare incredibile – l’unica canzone che ha riferimenti diretti a quest’era pandemica è Mai dire mai di Willie Payote che ascolteremo stasera.
Se l’italmusic da esportazione gongola per il Golden Globe alla Pausini (arriverà anche lei), sotto le volte dell’Ariston sono sfilati i cliché di sempre, quelli che nel mondo identificano l’italian way of sing, fatto di melodie ariose e testi all’ambrosia contrapposti ai bromuri dei rapper e dei trapper che per un ormai conclamato ecumenismo si ritrovano qui affiancati all’Oriettona nazionale ai rockettari Maneskin o alle mascherate da Zero.2 di Achille Lauro. Non siamo lontani dalle mitiche contrapposizioni tra melodici e urlatori che infiammavano le edizioni dei primi anni Sessanta.
Certo, ‘a nuttata è ancora lunga assai (per non dire estenuante: ieri più di 5 ore) per azzardare giudizi e verdetti, ma pare evidente che la kermesse abbia già trovato il suo bandolo e la sua matassa proprio nel suo pervicace continuare ad esistere anche in condizioni estreme come quelle che sta vivendo tutto il mondo che gira intorno a questo imprescindibile carrozzone: così leggero da apparire inconsistente, così scanzonato da meritarsi una benedizione, così distanziato da sembrare uguale a noi.