Ue e coronavirus, quale fondo per la ripresa?
Alle 19 del 23 aprile, con una brevissima comunicazione, in diretta via web, il presidente del consiglio italiano Giuseppe Conte ha voluto aggiornare degli esiti molto positivi, a suo giudizio, della riunione del Consiglio europeo avvenuta in teleconferenza.
All’interno dei palazzi dell’Ue già si sapeva che l’incontro si sarebbe concluso con l’approvazione degli strumenti già concordati dall’Ecofin del 7 aprile per rispondere alla crisi della pandemia da coronavirus. E cioè un pacchetto complessivo da 540 miliardi di euro accessibili dal primo giugno tramite Bei, Sure e Mes.
Conte si è seduto davanti allo schermo del suo computer dopo giorni di febbrile trattativa, con il compito gravoso di rappresentare la nazione colpita per prima e molto duramente, con migliaia di morti, dal contagio da Covid-19.
È ben consapevole dei milioni di italiani che rischiano o sono già travolti dalla recessione. Sa di avere posizioni divergenti nella sua maggioranza, tanto da arrivare a dare l’informativa dello stato della trattativa con l’Ue alle camere senza arrivare alle votazioni.
L’opposizione lo invita alle dimissioni tramite la stampa di riferimento e gli interventi durissimi in aula come quello del leghista Alberto Bagnai. Mentre è sempre sullo sfondo l’ipotesi di una diversa maggioranza con cambio del premier grazie ad appoggio di Forza Italia e formazione di gruppi di “responsabili” fuoriusciti dai 5Stelle.
L’europeista Emma Bonino, nel dibattito al Senato, ha anche invitato Conte a non forzare la mano nella trattativa con gli altri Paesi perché non esisterebbe una soluzione B, alternativa all’accordo interno all’UE.
Il 23 aprile ha segnato il tramonto dell’idea, mai accettata dai Paesi del Nord Europa, dell’introduzione di una forma di eurobond (chiamati anche corona bond o solidarity bond). Resta in piedi la previsione di un massiccio fondo per la ripresa (Recovery Fund) secondo un piano che la Commissione europea dovrà presentare il prossimo 6 maggio.
Tale fondo che dovrebbe rendere disponibili 1.500 miliardi di euro ed è stato riconosciuto come prioritario e urgente su sollecitazione italiana. Un fondo strettamente collegato alla ridefinizione del bilancio comune europeo che, tuttavia, a febbraio, in sede di programmazione per il periodo 2021 -2027, ha registrato una seria battuta di arresto nell’accordo tra diversi Paesi. Eravamo in un periodo precedente all’esplosione della pandemia, ma anche 2 mesi fa era evidentemente insufficiente, pure in condizioni ordinarie, pensare di realizzare progetti comuni di lungo termine in Europa solo con la condivisione dell’1,074% del prodotto nazionale lordo europeo.
L’annuncio di un “fondo per la ripresa” non significa che tutte le parti siano d’accordo sulle modalità del suo finanziamento e funzionamento. E, quindi, il vero periodo decisivo è quello che si apre da ora fino a giugno. Nel periodo, cioè, il nostro Paese è chiamato a definire le misure che andranno a completare il decreto cura Italia del 17 marzo, in via di conversione in legge.
Il problema enorme da affrontare, tra mille sollecitazioni che arrivano da una miriade di portatori di interessi, è quello di poter stanziare enormi impegni di spesa per le nostre finanze senza andare incontro ad un aumento così vertiginoso del debito pubblico da escluderci dai mercati esponendoci al fallimento e a tagli insostenibili su sanità, scuola, pensioni,ecc.
L’alternativa, quindi, tra fondi da considerare come “prestiti” o “trasferimenti” è molto concreta e facilmente intuitiva. La tenuta dell’unità europea è tutta, secondo il presidente francese Macron, nella capacità di definire questi trasferimenti “a fondo perduto” a favore delle zone più colpite dalla pandemia.
Pragmaticamente il premier olandese Rutte ha affermato, invece, che relativamente agli «aiuti a fondo perduto lo strumento giusto è il bilancio pluriennale» mentre «il fondo per la ripresa è basato sui prestiti». In una zona intermedia si pone la proposta avanzata dalla Spagna di un fondo europeo finanziato con il sistema del “debito perpetuo”, che non bisogna restituire ma solo corrispondere a interessi molto bassi, garantiti a livello comunitario, pagati tramite tasse ecologiche di scopo (tipo sulle emissioni di Co2).
A dire la parola decisiva sarà comunque la Germania di Angela Merkel, la quale ha rilasciato dichiarazioni interlocutorie, aperte alle possibili soluzioni unitarie, escludendo comunque gli eurobond che, a suo parere, sono contrari ai trattati europei.
È certo, tuttavia, che ogni ritardo nella definizione di un efficace “Fondo per la ripresa” – c’è chi ipotizza gennaio 2021 -, spingerà l’Italia ad accedere alle risorse accessibili da giugno, tra cui anche il Mes, lo strumento su cui si è concentrato lo scontro politico nostrano. Con numerosi interventi, da Monti a Letta, riportati sulla stampa mainstream, per rassicurare sulla nuova natura del Meccanismo europeo di stabilità, finalizzato a sostenere le spese sanitarie senza chiedere di sottoporsi a gravosi piani di rientro del prestito.
Una diversa opinione, pur diffusa, invita a considerare il Mes nella cornice complessiva della sua impostazione giuridica e finanziaria che resta iniqua e tale da aprire le porte ad un commissariamento del nostro Paese da parte della cosiddetta Troika (banca centrale europea, Commissione europea e Fondo monetario internazionale) e l’adozione di misure di austerità simili a quelle imposte in Grecia.
Ma anche i 36 miliardi di euro che potrebbero arrivare in Italia da tale strumento restano sempre insufficienti a coprire gli interventi indispensabili per sostenere la nostra economia che si avvierebbe ad una recessione del 9% del Pil.
In questa fase di grande sospensione è emerso anche un piano “autarchico”, proposto da Giulio Tremonti, ma sostenuto anche da esperti di altra area come Giovanni Bazoli, di un fondo per la ricostruzione finanziato con versamenti volontari, rimborsabili nel lungo termine esentasse, da parte di quella parte degli italiani che detengono grandi ricchezze (oltre 4 mila miliardi di attività finanziarie). Un’ipotesi che riprende quanto avvenuto nel secondo dopoguerra e che risponde a quanto evidenziato, sulla contraddizione tra ricchezza privata e debito pubblico, dall’economista Benedetto Gui su questo sito.
È qualcosa di molto differente da una tassa patrimoniale che, secondo i critici, incasserebbe poche risorse e farebbe scappare i capitali. Ipotesi, ad ogni modo, sostenuta dall’economista Luigino Bruni che sostiene, assieme a molti altri, che la crisi attuale non si può risolvere senza affrontare la questione della disparità di trattamento fiscale delle imprese all’interno della Ue. Ma tale questione dei paradisi fiscali non è stata presa in considerazione, a quanto pare, nella riunione del Consiglio europeo o in altre sedi.
Resta l’urgenza impellente di trovare una soluzione alle necessità di un Paese ancora costretto alla quarantena e a difendere il controllo di aziende strategiche da attacchi speculativi e acquisizioni ostili.
A partire dal 25 aprile, giorno della Liberazione da una dittatura nefasta, si rende quanto mai necessario un confronto competente e aperto su questioni vitali della nostra convivenza sociale esposta a forti rischi per il suo futuro.