Trattativa Stato-mafia

Apprezzamenti e critiche alla sentenza che ha accertato il ricatto mafioso allo Stato  
ANSA/ALESSANDRO DI MEO

È giunta alla prima tappa la vicenda giudiziaria che vedeva imputati uomini delle istituzioni – investigatori e politici – che si sarebbero fatti complici, per far cessare le stragi di mafia, del ricatto mafioso allo Stato da parte dei boss corleonesi. La sentenza ha portato il giudice Alfredo Montalto a comminare dodici anni di carcere agli ex vertici del Ros Mori e Antonio Subranni, all’ex senatore Dell’Utri e Antonino Cinà. Otto gli anni di detenzione inflitti all’ex capitano dei carabinieri, Giuseppe De Donno, e ventotto al boss Leoluca Bagarella.

Ricostruiamo la storia.

L’inizio fu l’omicidio di Salvo Lima (12 marzo 1992), di cui era imputato Bernardo Provenzano. Per questo il processo s’è celebrato davanti alla corte d’assise di Palermo, anche se Provenzano non è mai stato presente in aula, perché ancor prima di morire fu dichiarato incapace di intendere. Poi si continuò con l’ex ministro dc Calogero Mannino, accusato di aver innescato la trattativa con i mafiosi per il timore di essere la vittima successiva dei corleonesi di Riina. Ma nemmeno Mannino è mai comparso davanti alla corte, perché ha scelto il giudizio abbreviato ed è stato assolto in primo grado. Il terzo gradino è la strage di Capaci che uccise Giovanni Falcone, la moglie e gli agenti di scorta, per la quale assassini e mandanti sono già stati condannati a Caltanissetta. È a questo punto che si inserisce il collegamento con l’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, da parte dei carabinieri del Ros: Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno. Secondo loro era solo un’iniziativa investigativa per arrivare a Riina, mentre i pm Vittorio Teresi, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia hanno sostenuto che si fecero tramite del ricatto mafioso riportando al governo le pretese del super-latitante: un alleggerimento delle misure antimafia in cambio della fine della stagione stragista. E la corte ha stabilito che andò proprio così, fino a tutto il 1993, dunque anche dopo l’arresto di Riina eseguito dagli stessi carabinieri del Ros. Di qui la condanna dei tre ex ufficiali dell’Arma.

Dopo il ’93 arriva il ’94: è il gradino successivo della scala salita dai mafiosi guidati, dopo l’arresto di Riina, dal cognato Leoluca Bagarella, che s’è visto infliggere la condanna più alta, 28 anni, più del doppio dell’altro boss (Antonino Cinà, 12 anni). Dopo i governi presieduti da Amato e Ciampi, dal marzo ’94 s’era insediato il governo di Silvio Berlusconi che solo due mesi prima aveva fondato Forza Italia, con l’aiuto determinante di Marcello Dell’Utri. Fu lui (secondo il dispositivo della sentenza che in questo unico caso cita espressamente il governo Berlusconi) a fare da tramite con l’esecutivo, subentrando ai carabinieri. Di qui la sua condanna a 12 anni di reclusione.

La semplice lettura del dispositivo, che lascia certamente trasparire il convincimento della corte sulla responsabilità penale degli imputati, non consente di comprendere l’iter logico seguito dalla stessa nella ricostruzione dei fatti storici. Con la lettura delle motivazioni tutto sarà più chiaro.

Intanto le reazioni a caldo si sono divise, come era ovvio, fra apprezzamenti e critiche.

La sentenza del processo sulla trattativa tra Stato e mafia «ha un valore storico». «Ora abbiamo la certezza che la trattativa ci fu». Così, il pm Antonino Di Matteo parlando con i cronisti subito dopo la sentenza. «La Corte – dice – ha avuto la certezza e la consapevolezza che mentre in Italia esplodevano le bombe nel ’92 e nel ’93 qualche esponente dello Stato trattava con Cosa nostra e trasmetteva la minaccia di Cosa nostra ai governi in carica. E questo è un accertamento importantissimo, che credo renda un grosso contributo di chiarezza del contesto in cui sono avvenute le stragi. Contesto criminale e purtroppo istituzionale e politico».

Il pm ha fatto riferimento anche a Berlusconi, ed ha dichiarato: «Dell’Utri ha fatto da cinghia di trasmissione tra le richieste di Cosa nostra e l’allora governo Berlusconi che si era da poco insediato». Dichiarazione che, ovviamente, ha sollevato un mare di polemiche.

«In questi anni è stato detto di tutto sulla nostra inchiesta e sul nostro processo. Adesso c’è una Corte d’assise che, dopo 5 anni di processo, ha concluso in questo modo. È un momento importante per capire che la lotta alla mafia va fatta certamente sul piano della repressione dell’ala militare di Cosa nostra, ma deve essere fatta anche per recidere una volta per tutte i rapporti che la mafia ha sempre avuto con la politica e le istituzioni». «Questa è una conclusione positiva per ritenere che lo Stato si può impegnare ed è in grado di fare questo», ha aggiunto.

Fabio Granata, già vicepresidente della commissione nazionale Antimafia e relatore sulle stragi del ‘92, ha voluto dire la sua. «La trattativa Stato-mafia che portò alla morte di Paolo Borsellino e della sua scorta e condizionò la vita della Repubblica – ha affermato –  non era, dunque, una invenzione dei magistrati ma una vergognosa realtà conclamata adesso in sentenza».

«Oggi – prosegue Granata – si apre un varco di luce sull’oscurità e la vergogna di quegli anni e sulle  complicità indicibili che accompagnarono gli avvenimenti dei primi  anni Novanta. Hanno avuto risposta anche i garantisti interessati in servizio permanente effettivo. Onore ai magistrati palermitani degni eredi di Paolo Borsellino».

Per il pm Roberto Tartaglia, che ha commentato la sentenza prima di lasciare l’aula bunker del carcere Pagliarelli di Palermo, «il dispositivo parla da solo, è molto chiaro. È un dispositivo che dimostra una cosa importantissima, cioè che questo processo doveva essere assolutamente fatto e che abbiamo lavorato bene, con serietà al di là di ogni polemica o critica».

Diversa valutazione perviene, invece, dal pm Carlo Nordio, secondo cui la sentenza presta il fianco ad una serie di critiche.

Un primo dubbio va ravvisato nella durata del processo. Così scrive Nordio: «Un processo che duri cinque anni è certamente un processo anomalo. E tanto più si attorciglia su se stesso fra tragedie, polemiche e contraddizioni, tanto più condiziona gli stessi giudici che lo stanno conducendo». A Palermo ci si è trovati «ingarbugliati in una matassa di eventi lontani nel tempo, incerti nella ricostruzione e ambigui nell’interpretazione». Una situazione che non può non creare nel giudice «condizionamenti» che poi sfoceranno in «inconsci pregiudizi. In altre parole, se una Corte impiega cinque anni per arrivare a una decisione, è assai difficile che alla fine ci dica che i fatti non sussistono. O comunque che ci dica che i fatti non sono provati al di là di ogni ragionevole dubbio. Non che non ne abbia il coraggio: semplicemente non ne ha la possibilità critica».

Altra questione sollevata da Nordio riguarda la mancanza di una chiara e netta individuazione dei ruoli dei soggetti coinvolti: «Per ora è difficile individuare ricattati e ricattatori. Se, come parrebbe, la mafia si fosse servita di carabinieri e altri funzionari infedeli per condizionare le Istituzioni, poiché queste ultime non esprimono vuote rappresentazioni metafisiche, ma sono incarnate in volti definiti, questi ultimi dovrebbero essere individuati nei rispettivi ruoli specifici». Invece, nel nostro caso, continua Nordio, è stato tutto un entrare e uscire di politici di primo piano, ascoltati (Napolitano), incriminati e poi assolti (Mancino e Mannino) e, in un caso (Loris D’Ambrosio), addirittura morto di crepacuore». Insomma, uno show, e nota Nordio: «Questo palcoscenico non può restare senza protagonisti, limitandosi a esibire qualche comparsata. Se questo vuoto non fosse colmato la sentenza resterebbe inspiegabile».

Nordio esprime, inoltre, legittime perplessità sul comportamento tenuto durante il processo dai pm Ingroia e Di Matteo. Mentre i giudici sono stati «ineccepibili», nel senso che per tutto il tempo non hanno rilasciato dichiarazioni e sono stati assai riservati, la stessa cosa non può essere detta dei pubblici ministeri. Del primo, senza nominarlo, Nordio dice che «si è dato, senza successo, alla politica, in costanza di processo» e del secondo (Nino di Matteo) che «ha partecipato a dibattiti preelettorali, proponendosi anche per eventuali candidature; e quel che è peggio, dopo la sentenza, ha tirato in ballo un personaggio politico (Berlusconi, ndr) che al processo non aveva partecipato». Il giudizio di Nordio su tale modus operandi è lapidario: «Un gesto assai grave e che comunque vulnera, una volta di più, il principio della separazione dei poteri e la stessa credibilità della magistratura».

Infine, Nordio esprime un dubbio: «Guardando retrospettivamente quegli anni lontani, notiamo che quasi tutti i vertici delle Forze dell’Ordine e dei Servizi di sicurezza chiamati in causa sono stati inquisiti salvo poi, in molti casi, essere assolti con clamore. I due generali dei Ros, ora condannati, avevano un glorioso medagliere di successi contro il terrorismo e la delinquenza organizzata: così come lo aveva Contrada, e tanti altri generali e dirigenti di cui non vogliamo fare il nome per non rievocarne il dolore. Ora ci domandiamo: è possibile che per anni siamo stati “tutelati” (si fa per dire) da una masnada di banditi? E in caso affermativo, dov’era la politica che li aveva piazzati in quei posti? Oppure è nella nostra giustizia che qualcosa non ha funzionato, e forse continua a non funzionare?».

I contrastanti pareri denotano quanto complessa sia stata la ricostruzione dei fatti storici, di rilevanza nazionale, sottoposti all’attenzione della corte cui va riconosciuto il compito, per nulla facile, di ricostruire un pezzo della storia italiana nella limitata sede giudiziaria. Quanto la verità processuale accertata nel processo combaci con la verità storica, lo comprenderemo nei prossimi anni. Un valido contributo in tal senso potrebbe essere dato – come auspicato dal pm Di Matteo –  da un  «pentito di Stato».

Intanto, come i difensori degli imputati hanno lasciato intendere, siamo solo al primo atto.

Sulla trattativa stato mafia vedi anche qui intervista a Vincenza Rando, avvocato parte civile nel processo come rappresentante di Libera

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