Taranto, l’Italia e ArcelorMittal

Il caso più eclatante del conflitto tra lavoro e salute nel nostro Paese registra la decisione prevedibile del colosso industriale indiano di abbandonare la gestione della più grande impresa siderurgica italiana. Ma le ragioni decisive sembrano essere altre

Per trattare con il governo italiano, mercoledì 6 novembre 2019, si è mosso addirittura da Londra, dove risiede, Lakshmi Nivas Mittal, dominus di ArcelorMittal, multinazionale indiana con sede in Lussemburgo. Società accreditata come la più grande produttrice di acciaio al mondo e che ha deciso di abbandonare la gestione dell’exIlva, già Italsider, ex gioiello dell’industria di Stato, con sedi a Taranto, Genova, Novi Ligure, Racconigi e Marghera. Segnali diversi non si intravedono da quanto riferito dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte o, meglio, gli indiani fanno capire che, anche in caso di ripensamento, sono intenzionati, comunque, a procedere con 5 mila licenziamenti su un organico complessivo di circa 12 mila dipendenti, senza contare l’indotto.

Una lunga storia
Si tratta di una complessa vicenda legata essenzialmente al sito pugliese, nell’occhio del ciclone dal 2012 con l’emersione, per via giudiziaria, del grave inquinamento subito negli anni dal territorio, con maggiore incidenza sui residenti in età pediatrica (Studio Sentieri 2019). Il peso delle emissioni nocive, prodotte dal più grande stabilimento siderurgico d’Europa, è ricaduto sulla popolazione, compresi i lavoratori, che hanno così pagato il prezzo della crescita economica del nostro Paese, affermatosi nel secondo dopoguerra per la sua intensa attività manifatturiera in competizione con Francia e Germania.

Siamo davanti a una serie infinita di responsabilità, mutevoli a seconda delle diverse letture storiche dei fatti, ma che sono esplose con il sequestro dell’attività alla Riva Fire e la conseguente gestione, dal 2015, dei commissari governativi fino alla gara pubblica per l’assegnazione ad ArcelorMittal, non senza polemiche e contestazioni interne alla stessa maggioranza governativa a guida dem.

La questione più controversa riguarda il cosiddetto “scudo penale” assicurato al colosso indiano nei confronti delle possibili azioni della magistratura italiana per violazioni alla normativa ambientale, fino al termine del periodo (2023) previsto per completare il piano di risanamento del sito tarantino. Il provvedimento, oggetto di un ricorso alla Corte costituzionale ad opera della stessa magistratura tarantina, è stato contestato da più parti e, alla fine, il governo Conte 2 ha deciso di attenuare gli effetti di tale scudo a partire dal 3 novembre 2019. Una scelta che ha comportato la reazione immediata di ArcelorMittal, che ha notificato la rescissione dell’accordo per il subentro progressivo negli stabilimenti ex Ilva. È evidente che la società, ad esempio,  non potrà mettere in sicurezza entro i termini dettati dai giudici ( 13 dicembre 2019) l’altoforno 2 dove, nel 2015, è morto l’operario Alessandro Morricella, investito da una colata di ghisa.

Una riconversione immaginaria
A livello politico, l’oggetto dello scontro riguarda l’impegno assunto nella campagna elettorale del 2018 dal M5S, partito di maggioranza nei governi Conte 1 e 2, di procedere ad una riconversione integrale dell’Ilva sul modello già sperimentato nel bacino della Ruhr, in Germania o a Pittsburgh negli Usa. Una prospettiva che si è scontrata con il rispetto degli accordi sottoscritti dai precedenti governi con la ArcelorMittal e la palese assenza di una politica industriale orientata verso la riconversione economica.

È decisivo, a parere dell’economista Giulio Sapelli, il fatto che l’acciaio di alta qualità prodotto dalle maestranze italiane, con il patrimonio tecnologico tuttora esistente, risponde per il 70% al fabbisogno interno delle nostro tessuto produttivo interno, composto da piccole e medie imprese, altrimenti esposte alle fluttuazioni della concorrenza mondiale.

Sapelli, e molti con lui, sono convinti che sia possibile procedere al risanamento ambientale del complesso industriale. È dello stesso avviso, sostanzialmente, anche l’economista Vera Negri Zamagni, pur lamentando l’errore storico, fatto dall’Italia, di privarsi, con la dismissione delle imprese pubbliche, della capacità strategica delle aziende di grandi dimensioni, praticamente sempre più monopolio Usa e delle potenze asiatiche. Cina e India su tutte. «Fra le 500 più grandi imprese del mondo l’Italia ne conta sei, mentre Francia e Germania ne hanno una trentina ciascuno», ricorda Negri Zamagni, che invita a non cedere alla suggestione della “decrescita felice” destinata a incrementare solo i sussidi di disoccupazione.

Più che di decrescita, osserva Alessandro Marescotti dell’associazione Peacelink, si tratta di crescita delle morti da inquinamento, che raggiunge livelli inaccettabili, secondo le fonti ufficiali sanitarie, anche con una produzione di 4,7 milioni di tonnellate di acciaio all’anno. Numeri, tra l’altro, del tutto fuori da un mercato che pretende, per restare competitivi, volumi annui almeno pari a 7-8 milioni di tonnellate.

In questi casi, sottolinea Marescotti bisogna fare uno sforzo comune per mettere in campo «le migliori energie di carattere scientifico, tecnico, strategico, economico e andare a visitare nel mondo dove si sono verificati casi di crisi industriale simili per scoprire come sono stati risolti». Un percorso che non incontra molti sostenitori a livello politico e nel settore industriale italiano.

Una sovranità perduta
La via della nazionalizzazione, invocata dall’ex vicepresidente della Corte Costituzionale Paolo Maddalena, viene definita, dai più, come irrealizzabile in base alle regole europee. E poi, come osserva Edoardo Rixi della Lega, il governo non ha previsto, in Bilancio, il “piano B” per ristatalizzare l’exIlva (un miliardo di euro all’anno). E, comunque, l’uscita di ArcelorMittal comporterà dei costi necessari di manutenzione dello stabilimento, oltre a quelli per la cassa integrazione dei lavoratori, che graveranno sulla gestione pubblica dei commissari governativi.

Lo scudo penale rappresenta perciò, come fanno notare in molti, solo un pretesto della ArcelorMittal per ritirarsi da un affare non più conveniente, dopo aver comunque acquisto il portafoglio clienti dell’ex Ilva.

Come osserva infatti Sapelli, «i contratti stipulati negli ultimi mesi prevedono che, qualora non si produca più a Taranto, ArcelorMittal possa comunque utilizzare altri impianti all’estero per rifornire la filiera dell’ex Ilva». Per le tre maggiori sigle sindacali (Cisl, Uil e Cgil) non bisogna fornire alcun alibi agli indiani per andarsene ma obbligarli a portare avanti il piano industriale, introducendo una normativa generale, e non ad aziendam, che preveda lo scudo penale per le imprese impegnate in processi di ristrutturazione ambientale.

Il rischio, altrimenti, secondo Marco Bentivogli della Fim Cisl, è quello di chiudere lo stabilimento e perdere ogni “sovranità industriale”. Prima ancora di tale sovranità, viene quella nazionale ed europea, secondo Stefano Fassina. L’economista, deputato di Leu, invita a considerare che, ad ogni modo, siamo in «un libero mercato drammaticamente squilibrato in termini di standard sociali e ambientali» e, quindi, «o innalzi i dazi, almeno ai confini Ue, oppure abbandoni la produzione di acciaio, in particolare a Taranto. Senza dazi, i vincoli sacrosanti, ma costosissimi, sul versante ambientale e sanitario mettono fuori mercato» chiunque produca nel nostro Paese. Il vero problema della fuoriuscita di ArcelorMittal è, invece, per altri osservatori, l’effetto negativo che produrrà verso gli investitori esteri.

Ma quali sono i requisiti necessari per attrarre i capitali stranieri nel nostro Sud che, in 19 anni, ha visto, secondo il rapporto Svimez 2019, la partenza obbligata di 2 milioni di persone? Su questo punto il dibattito è tutto aperto. Il ministro per il Meridione, Giuseppe Provenzano, ha varato un piano per il Sud che ha fondi limitati da investire. Nel frattempo ArcelorMittal ha proceduto alla nomina di Lucia Morselli come amministratore delegato della propria società italiana (Am Investco).

Si tratta di una manager da tutti conosciuta e temuta per i licenziamenti operati alle acciaierie speciali di Terni e alla Breco in Emilia, entrambe controllate dalla tedesca ThyssenKrupp. È un segnale eloquente di quella sovranità esercitata, di fatto, dai grandi gruppi industriali davanti a entità nazionali che si limitano ad evocarla.

Bisogna chiedersi cosa può provocare, a livello sociale, questa interiorizzazione della sconfitta delle ragioni del lavoro e della salute pubblica. È perciò da apprezzare la scelta del comitato scientifico della Cei di promuovere proprio a Taranto, a marzo 2021, la Settimana sociale dei cattolici italiani incentrata proprio sulla «questione ambientale intesa come conflitto tra lavoro e ambiente seguendo la prospettiva dell’ecologia integrale della Laudato Sì».

Un percorso difficilissimo ma che non si può rimuovere dallo sguardo e dalla consapevolezza collettiva. Il caso Taranto è il caso Italia.

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