Siria in ginocchio per l’embargo
In una testimonianza pubblicata da Asianews a fine aprile scorso, l’arcivescovo maronita di Damasco, mons. Samir Nassar, così raccontava la situazione della Siria: «Otto anni di guerra hanno distrutto un’intera nazione e il suo pacifico popolo: devastazioni immeritate, 600 mila morti, 12 milioni di rifugiati ed esuli senza patria, un’economia ridotta alla paralisi, una moneta senza alcun valore e una sempre crescente inflazione, a cui sommare un embargo che schiaccia il poco che resta».
E mons. George Abu Khazen, vescovo latino di Aleppo, in un’intervista esclusiva a Sputnik Italia di pochi giorni fa, arrivava a dire che la situazione è oggi quasi peggiore di quando era in corso la battaglia di Aleppo. «La guerra forse è finita, o sta per finire, ma qui ad Aleppo e in tutto il resto della Siria il peso delle sanzioni sta diventando insopportabile. Manca tutto. Noi cristiani, come tutti i siriani, viviamo in condizioni impossibili. Ogni cosa, anche la più essenziale, è razionata. La bombola del gas si può cambiare solo una volta ogni venti giorni. Le automobili private hanno diritto a venti litri di benzina ogni cinque giorni, i tassisti possono comprarne venti ogni due giorni… Molti mezzi pubblici non circolano più e i pullman delle scuole sono quasi tutti fermi… Se a tutto questo aggiungete un caro vita inarrestabile capite quanto la situazione sia difficile. Per la prima volta proviamo un peso quasi insopportabile».
Embargo? Sanzioni che stanno mettendo in ginocchio la Siria? In Europa se ne sa poco o nulla, anche perché l’embargo di cui si parla non è un attentato rivendicato dall’Isis né un crimine attribuibile al regime di Bashar al-Assad. L’embargo, che sta opprimendo i siriani, è quello voluto dagli Usa e dall’Unione europea fin dal 2011, ma reso ancora più duro dalle ulteriori sanzioni imposte dal governo Usa contro l’Iran. Perché finora il carburante che aveva permesso alla Siria di sopravvivere arrivava dall’Iran attraverso le navi che aggirando la penisola arabica e passando per il canale di Suez giungevano nei porti siriani sul Mediterraneo: Latakia, Baniyas e Tartus. Questo naturalmente a causa della guerra, perché la Siria fino al 2011 produceva 385 mila barili di greggio al giorno. Con la probabile complicità dell’Egitto, che non può permettersi di contraddire le imposizioni del governo Usa, sembra che le navi dirette in Siria con il petrolio iraniano vengano bloccate nel Mar Rosso. Certo, qualcosa in Siria arriva via terra dai territori curdi e iracheni, ma non basta a sostenere il fabbisogno del Paese.
La prossima scadenza del rinnovo delle sanzioni da parte dell’Ue il primo giugno lascia ben poche speranze che cambi qualcosa. Quello che otto anni di guerra non sono riusciti a fare, cioè spezzare la volontà dei siriani di ricominciare, lo stanno facendo le sanzioni che pesano sul popolo, con lo scopo evidente di costringere il Paese a ripudiare Bashar al-Assad e il suo governo. Le conseguenze del braccio di ferro anti-regime (e anti-Russia, anti Iran, anti-Cina) sono pesantissime per la gente comune, per coloro che sono rimasti in patria nonostante la guerra.
Tanto per fare qualche esempio: con la crisi, gli addetti ai trasporti (camionisti, autisti di autobus e taxi, ecc.) non riescono più a mantenere le famiglie, gli studenti non possono frequentare scuole e università, i malati non riescono a recarsi negli ospedali e in alcune città sono bloccate anche le ambulanze. Ma le sanzioni non riguardano solo i carburanti: per esempio, le medicine non arrivano e i macchinari degli ospedali spesso non funzionano per mancanza di elettricità o perché i pezzi di ricambio sono introvabili.
Suor Marta, trappista italiana del monastero di Azeir, sulle colline di Al-Zahra tra il Krak des chevaliers e il confine libanese, racconta in una testimonianza pubblicata in questi giorni su Youtube e ripresa da numerosi siti cattolici: «È la prima volta in tutti questi anni che vediamo la gente veramente scoraggiata, perché le sanzioni ci colpiscono pesantemente: non c’è gas, non c’è benzina, non c’è gasolio, così nella nostra regione, che è soprattutto agricola, la gente coltiva, ma poi non ha la possibilità di portare frutta e verdura a Damasco o sui mercati. Anche tutte le piccole attività sono ferme: ad esempio molte cose si conservano ancora col ghiaccio e chi fa il ghiaccio non riesce a produrlo, non c’è elettricità per i freezer né benzina per portare in giro i blocchi di ghiaccio. Stessa cosa per il pane: è razionato perché i forni funzionano a gasolio… Nessuna meraviglia che la gente sia veramente scoraggiata».