Simone Isola, produttore e regista
Come ti definisci professionalmente?
Sono un produttore, ma vedo sempre i progetti come idee da sviluppare. Non faccio scelte a tavolino per cui decido di fare il regista piuttosto che il produttore. Parto dalla qualità di un progetto e cerco di individuare le persone più adatte a realizzarlo. A volte mi rendo conto di essere io e sviluppando esperienze si costruisce una robusta professionalità.
Tutto è partito dal documentario del 2015 su Alfredo Bini: l’importante produttore dei film di Pasolini e di capolavori come Il bell’Antonio…
Fu la mia tesi di dottorato e da lì sono arrivato a Venezia attraverso un viaggio fatto di ricerche e incontri come quello con Giuseppe Simonelli, che per gratuità ha ospitato Alfredo Bini in casa sua per una decina di anni. Gli ultimi, quelli del declino. Sono partito dalla storia bellissima di un uomo che come un figlio acquisito accoglie un anziano sconosciuto.
Come l’hai raccontata?
Ho chiesto a Simonelli di passare una giornata insieme. Poi al montaggio l’ho riempita con la storia di Bini, col suo finale da film e l’enorme patrimonio di opere che ha lasciato.
Poi sono arrivati altri due documentari: uno presentato a Venezia e uno alla festa di Roma, l’autunno scorso…
Nati sempre in modo spontaneo: quello su Claudio Caligari, realizzato con Fausto Trombetta, in seguito al film Non essere cattivo, del 2015, prodotto dalla mia casa di produzione, la Kimerafilm, e quello su Vittorio Cecchi Gori, firmato con Marco Spagnoli, dalla grande curiosità che ho sempre avuto per questa famiglia.
Cosa hai pensato di fare?
Sono tornato su quest’impero crollato di cui Vittorio è l’ultimo simulacro. Sulla rimozione che c’è stata intorno a questa famiglia. Volevo andare più a fondo nel discorso.
I tre protagonisti di questi documentari sono legati solo da una grande passione per il cinema o anche da altro?
Sono tre uomini che ho incontrato nella parte finale della loro vita. Potremmo dire che sono tre sconfitti, ma solo sulla carta: tutti e tre hanno pagato dolorosamente il loro rapporto con il cinema. Quella passione bruciante che può costringerti a compiere scelte rischiose e affrontare la vita in modo complicato. Hanno avuto col cinema una storia d’amore tormentata.
Caligari più di tutti?
Claudio ha fatto il regista per quarant’anni senza farlo. Ha scritto trenta film ma ne ha realizzati solo tre. Un amore incredibile, quasi folle, quasi un’ossessione. Il documentario su di lui è anche la storia di un talento che per diversi motivi ha fatto fatica a emergere.
I tuoi sono anche viaggi nel cinema italiano di un tempo…
L’approccio al cinema della famiglia Cecchi Gori appartiene al passato, è di un’altra epoca. Continuiamo a vedere gli anni Novanta come vicini, ma cominciano a essere molto lontani.
Cosa hai imparato da queste storie?
Mi hanno insegnato come si può arrivare a vivere il cinema. Soprattutto le storie di Bini e Caligari mi fanno riflettere. Piero Tosi, quando lo intervistai per Bini, mi disse: «Solo dopo ho saputo che Alfredo era morto».
Cosa contiene questa frase?
Qualcosa di non bello che può accadere nel cinema: per lunghi periodi vivi rapporti stretti, sei quasi migliore amico di qualcuno. Poi ti separi e lo puoi perdere per sempre.
Ti spaventa?
Mi dà consapevolezza che se non riesci a rimanere in linea con la tua attività ci metti poco a essere annientato. Se parti da basi economiche molto deboli non ti sono preclusi risultati: si possono ottenere. Per me è stato così, ma devi sempre stare all’avanguardia nella ricerca e nell’ordine.
Un consiglio che ti dai?
Non dare esclusiva importanza al lavoro. Cerco di insegnarlo anche agli studenti: il lavoro è lavoro! Per i medici, per i ricercatori, è una missione. Non per chi fa cinema. Io non vivo con sacralità il mio lavoro. Con molta passione certamente.
Una passione che poi porta alla candidatura ai David per il documentario su Caligari.
Della candidatura ai David, così come dei premi, mi interessa che possano aiutarti a lavorare meglio e con continuità.
Accennavi alla tua esperienza di docente. Insegni anche alla Volontè, al Rossellini e all’Accademia. Cosa spieghi ai tuoi ragazzi?
Che l’idea di partenza non è il film, ma va fortificata, raffinata attraverso una sceneggiatura se non cartacea almeno mentale. Va trovato il linguaggio giusto: può essere il documentario/intervista, il cinema del reale ecc..
Da cosa dipende la scelta?
Dal lavoro di ricerca. Ogni documentario è diverso da un altro. Vittorio Cecchi Gori non poteva fare cinema del reale: se gli chiedevi di compiere delle azioni non era in grado di farlo. Così ho realizzato sei ore di intervista in spazi diversi. Invece Giuseppe Simonelli aveva queste capacità: si è lasciato andare, si è fidato di me.
Dove sta la differenza tra documentario e finzione a livello produttivo?
Il processo di scrittura di un documentario è molto complesso rispetto a quello della fiction. Le fasi sono simili ma costruite in modo diverso. Il documentario è un viaggio emozionante nel quale sperimenti incognite che determinano poi la scrittura: imprevisti che quasi vai a cercare.
Nella finzione, invece?
Devi partire a girare quando sai già tutto. Da produttore devi avere le idee molto chiare in partenza e cercare di non farti condizionare dagli imprevisti.
Un aspetto che ami del tuo lavoro?
I buoni rapporti umani che nascono tra persone per motivi professionali. Parlare, confrontarsi.
A proposito di rapporti umani, hai collaborato spesso con Valerio Mastandrea..
Lo coinvolsi per il documentario su Bini come voce fuoricampo. Fu una scelta artistica, perché la sua voce è la più bella che abbiamo in Italia. Valerio è un istintivo, sa avere una tonalità calda ma al tempo stesso non emotiva. Poi ho prodotto La mia classe di Daniele Gaglianone e la sua opera prima da regista, Ride.
Su Caligari?
C’è anche un discorso di cuore. Valerio è stato fondamentale per Non essere cattivo: senza di lui non ci sarebbe stato il film. Ha condotto la barca in porto quando Caligari stava male, è stato il regista di supporto, il tramite tra lui e le persone che lo hanno sostenuto negli ultimi momenti della vita: Luca Marinelli, Alessandro Borghi e noi della produzione.
C’è una lettera finale nel documentario…
Di saluto. Arriva dopo un nero, un po’ staccata dal resto. È un po’ una coda, un omaggio di questa famiglia che è stata accanto al regista nei suoi ultimi momenti.
Hai chiesto a Valerio di scriverla?
Ho pensato che dovesse esserne lui l’autore e la voce. Valerio non voleva farlo, perché questo lavoro psicologicamente gli è costato molto. Quando venne in montaggio a vederlo finito era molto colpito.
Cosa ti ha insegnato?
Valerio ti porta però esperienze di vita molto forti che possono farti crescere.
Nei documentari hai incontrato molte testimonianze: Tornatore, la Cardinale, Verdone, molti altri. Un bel pezzo di cinema italiano…
A volte ascolti frasi che ti aprono gli occhi. Quando ho intervistato Bertolucci per Bini, mi disse: «L’arte del cinema è l’arte di trovare i soldi per fare i film». Dissi a Luca, il mio collaboratore, «questo è l’inizio del film»: per parlare di un produttore non puoi iniziare meglio.