Silvia Romano, la migliore gioventù

La giovane cooperante italiana rapita in Kenya nel 2018 si troverebbe in mano ad un gruppo terroristico in Somalia, ma sulla sua vicenda è sceso un incomprensibile silenzio mediatico. Perché dobbiamo parlarne. Intervista a Angelo Ferrari, autore del libro “Silvia. Diario di un rapimento”
Silvia Cristaldi/UGC via AP

La giovane cooperante milanese Silvia Romano, rapita in Kenya nel novembre del 2018, dovrebbe trovarsi in Somalia, ex colonia italiana, un territorio considerato uno “stato fallito”, cioè senza un’autorità e rappresentanza univocamente riconosciuta. E, infatti, pare che Silvia sia nelle mani dei terroristi islamisti di al-Shabaab.

Il presidente di Intersos, Nino Sergi, ha scritto, lo scorso agosto, una lettera aperta per incentivare la ricerca della giovane al generale Luciano Carta, comandante dell’Aise, l’Agenzia informazioni e sicurezza esterna che riporta direttamente alla Presidenza del Consiglio.  Un gesto che va letto come intenzione di mantenere viva l’attenzione dell’opinione pubblica sulla vita di una ragazza che rappresenta il meglio del nostra cultura. La capacità, cioè, di andare oltre i confini per ragioni di solidarietà, costruendo ponti tra i popoli.

Più di frequente si parla dei giovani costretti ad emigrare per trovare lavoro e crescita professionale fuori dal nostro Paese. In questo caso si tratta di una scelta di donazione che suscita disagio nell’ Italia attraversata dalla paura del “continente nero” visto come un pericoloso punto di partenza dell’invasione prossima ventura. L’idea del “prima gli italiani” si diffonde è emersa anche nei primi interventi di un affermato commentatore liberal che, a proposito del rapimento di Silvia Romano avvenuto in Kenya nel novembre 2018, ha detto che avrebbe fatto meglio a restare in Italia in qualche Caritas locale.

C’è chi, invece, come Angelo Ferrari, giornalista che lavora al desk Africa dell’agenzia di stampa Agi, ha sempre mantenuto l’attenzione su questa storia tanto da dedicargli un libro ( “Silvia. Diario di un rapimento, People editore) che permette, tra l’altro, di offrire uno sguardo penetrante della nostra società attuale.

Sei stato uno dei pochi a parlare ostinatamente di Silvia Romano. Cosa ti preoccupa?
Nella regione dove si pensa si trovi Silvia è in atto una recrudescenza dello scontro cruento dei terroristi con forze Usa e autorità keniane. Sappiamo tutti che il confine tra Kenya e Somalia è diventato una terra di nessuno. I raid statunitensi si sono intensificati, così come gli attacchi dei terroristi. Non dovremmo mai scordare la disattenzione che c’è stata in Italia verso Giovanni Lo Porto, il cooperante siciliano rapito in Pakistan nel 2012 e poi ucciso da una raid “amico” degli Usa nel 2015, con tanto di scuse postume di Obama.

Nella scaletta dell’informazione è evidente che ci concentri su altro come il conflitto in Libia che ci riguarda più da vicino?
È evidente il nostro Paese deve occuparsi di questioni strategiche legate alla Libia e alla marginalità a cui ci hanno costretto le altre potenze, ma perché esiste indifferenza verso una cittadina italiana di 25 anni che è stata rapita da una banda di criminali e poi venduta ai terroristi somali?

Tra le forze politiche chi si è mosso in qualche modo?
Pippo Civati si è dato da fare e organizzato incontri su Silvia. L’ex vice ministro agli Esteri Mario Giro sta facendo la sua parte. Per il resto si registra uno strano silenzio.

Cosa servirebbe?
Dobbiamo rompere questo muro di indifferenza. Mi ha colpito recentemente la cantante Fiorella Mannoia che andando in Africa per visitare un’opera di una Ong molto attiva (la Amref)  ha detto di aver visto il volto delle giovani volontarie pensando a Silvia Romano perché “abbiamo il dovere di chiedere alle autorità competenti di continuare a cercare, bisogna lavorare per ritrovarla, potrebbe essere la figlia di tutti noi”. Si dovrebbero moltiplicare questi appelli.

Ma liberala ci costerebbe troppo, dicono alcuni, affermando che si è andata a cacciare nei guai da sola….
Ma come ripeto sempre, lo scopo di volontari e cooperanti delle Ong è proprio quello di andare nelle aeree dove è maggiore il bisogno e minore, spesso, la sicurezza. I volontari vanno dove altri non andrebbero. E allora mi chiedo come sia possibile che in una società in cui ognuno può fare come gli pare ed è molto attaccato alla propria libertà, si possa giudicare e lasciare nel dimenticatoio chi decide di dedicarsi agli altri con totale generosità. Tanto più che ha fatto concretamente quello che altri dicono solo a parole nei confronti dei Paesi a forte emigrazione. È andata, cioè, ad aiutarli a casa loro.

 

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