Sanità pubblica al bivio
Sala d’attesa luminosa, manifesti di volti sorridenti, il medico del centro privato detta al computer il referto di un evoluto macchinario diagnostico. Arriva la fattura da pagare e ci si accorge che i sorrisi pubblicitari reclamizzano un’assicurazione sanitaria oppure una società che eroga prestiti.
Mentre ci si scontra sul reddito minimo da assicurare a tutti, rischiano di sfuggire al controllo le voci del salario indiretto come, ad esempio, il diritto alla salute garantito dal Servizio sanitario nazionale (Ssn). In alcuni ospedali, dopo aver ricevuto le cure del pronto soccorso, viene consegnato un documento con il costo dell’intervento sostenuto dalla struttura sanitaria.
Ovviamente non accollato al malcapitato. Un metodo per capire il concetto caro agli economisti liberisti: “Non esistono pasti gratis”. Qualcuno, infatti, come in questo caso lo Stato, è sempre tenuto a pagare.
Il welfare rappresenta la vittoria epocale contro “i quattro demoni” che insidiavano da sempre l’esistenza delle classi sociali più deboli: disoccupazione, vecchiaia, infortunio e malattia. Si può rimanere schiacciati davanti a tali eventi se l’individuo e la famiglia vengono lasciati isolati. Oltre agli interventi caritativi, le prime risposte organizzate sono arrivate dalle associazioni di mutuo soccorso. Alla vigilia dell’introduzione della legge 833 del 1978, la copertura delle spese sanitarie avveniva, non per tutti i cittadini, tramite casse mutue distinte per categorie di lavoratori, come l’Inam (pubblico Istituto nazionale per l’assicurazione contro le malattie, istituito nel 1943).
A ciascuno secondo il suo bisogno
In Italia, nel 1978, assieme a conflitti e tragedie (come la strage di via Fani e l’assassinio di Aldo Moro), sono maturate scelte coerenti con i principi costituzionali promulgati 30 anni prima. L’articolo 32 della Carta del 1948 afferma: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti». L’allora ministro della Sanità Tina Anselmi portava a compimento una riforma che introduceva un sistema già vigente nel Regno Unito ed esposto in tal modo nel volantino diffuso dal governo britannico: «Il Servizio sanitario nazionale (Nhs) inizia il 5 luglio 1948… Ognuno – ricco o povero, uomo, donna o bambino – potrà usufruirne. Non c’è nulla da pagare, eccetto che per poche prestazioni speciali. Non si tratta di un’assicurazione. E neppure di una forma di carità. Tu stai già pagando per questo, soprattutto come contribuente, e ciò allevierà le tue preoccupazioni finanziarie nel momento della malattia». Era l’applicazione delle tesi elaborate nel 1942 dall’economista William Beveridge a sostegno della coesione sociale di un Paese in guerra, molto prima delle ricette utilitariste che, dalla Thatcher in poi, hanno infranto tale sistema.
L’istituzione del Ssn è maturata nell’Italia dove i cattolici democratici come la Anselmi, chiamata in seguito a contrastare la massoneria deviata della P2, si incontrarono, in un mondo diviso tra Usa e Unione sovietica, con un forte Partito comunista che esprimeva esperti del calibro di Giovanni Berlinguer. Evidente, in questo caso, quanto abbia scavato in profondo l’espressione «da ciascuno secondo le sue possibilità ad ognuno secondo il suo bisogno».
Secondo Maria Pia Garavaglia, democristiana, titolare della Sanità nel 1993, oggi la politica sanitaria è impraticabile perché vige un commissariamento da parte dei dicasteri economici e comunque l’innovazione riformatrice ha affrontato seri ostacoli fin dal principio perché l’applicazione è stata affidata, nel 1979, al ministro Renato Altissimo, liberale di tutt’altra idea, così come Francesco De Lorenzo, autore, nel 1992, di una riforma aziendalista con cui, come ha rivendicato recentemente, «si prese atto che la salute era ormai un diritto finanziariamente condizionato». Un ambito che fa emergere visioni contrapposte di società come quella di Rosi Bindi, ministro ulivista dal ’96 al 2000, a favore della necessità di un Ssn pubblico, preso d’assalto dagli interessi privati così come «dalla corruzione e dai poteri criminali». La spesa sanitaria pubblica è in costante discesa, come conferma il “Rapporto 2018 sulla sostenibilità del Sistema sanitario nazionale” redatto dalla Fondazione Gimbe (Gruppo italiano per la medicina basata sulle evidenze). Nel «periodo 2015-2018 l’attuazione degli obiettivi di finanza pubblica ha sottratto, rispetto ai livelli programmati, 12,11 miliardi di euro», raggiungendo «livelli di percentuale sul Pil di spesa pro- capite inferiori alla media Ocse che si avvicinano sempre di più ai Paesi dell’Europa orientale».
Secondo gli ultimi dati del 2016, su una spesa sanitaria complessiva pari a 157,613 miliardi di euro, quella pubblica è pari solo a 112,182 miliardi, mentre 45,431 miliardi sono spesa privata, coperta in gran parte (39,830 miliardi) dalle tasche degli italiani, mentre il resto (5,601 miliardi) arriva da assicurazioni, fondi sanitari e altri enti.
Di solito questi dati sono letti assieme all’allarme lanciato dalla ricerca del Censis del 2017 che parla di «12 milioni di cittadini italiani che hanno rinunciato a curarsi o hanno rinviato le cure». Partner di tale studio è la Rbm Salute, società specializzata nell’assicurazione sanitaria.
Esponente, cioè, di quel “secondo pilastro” della salute pubblica costituita da assicurazioni private e fondi sanitari come quelli introdotti in alcuni contratti collettivi di lavoro, inducendo la sensazione che davanti a un naufragio collettivo alcuni soggetti più forti riescono a salvarsi.
Secondo la Fondazione Gimbe, il dettaglio della spesa privata in sanità fa emergere oltre 3 miliardi di euro restituiti come detrazione fiscale; 1,31 miliardi speso per farmaci garantiti dal Ssn; 5,9 miliardi per integratori ed erboristeria, mentre per il resto almeno il 40% «non copre beni e servizi indispensabili». Anche se i pareri variano: le vitamine per un figlio non sono indispensabili?
Resta il fatto che 8,5 miliardi di euro se ne vanno per cure odontoiatriche rimaste fuori dal Ssn, a beneficio della categoria del settore, e almeno 6 miliardi sono destinati a visite specialistiche e accertamenti che molte strutture pubbliche non riescono a sostenere in tempi accettabili. Senza contare il mercato dei nomi prestigiosi della medicina verso i quali ci si rivolge privatamente senza badare a spese.
La malasanità da colpire
I critici della sanità pubblica fanno notare che in tale sistema si riproducono comunque accessi diseguali alla salute, come certe appartenenze che permettono di aggirare le code e ottenere le migliori cure. Chi non cerca un medico o infermiere amico se ha un problema? Interi paesi sanno dove possono trovare cure affidabili fuori dalla loro regione.
Denunciare i casi di malasanità e corruzione può servire a migliorare un servizio pubblico oppure a dismetterlo. La privatizzazione è sostenuta dall’Istituto Bruno Leoni che addita, ad esempio, il modello olandese gestito da compagnie assicurative private, obbligate a stipulare un pacchetto base di copertura valido per tutti, osservando per il resto il principio del libero mercato che permette di «selezionare le persone in base al rischio».
Scenari inevitabili, secondo alcuni, in base all’invecchiamento della popolazione e alla diminuzione di imposte indotta dal calo demografico. Eppure, tornando ai numeri del rapporto Gimbe, esiste una fetta enorme (21,59 miliardi di euro) della spesa pubblica da recuperare tra gli sprechi in sanità «erosi da sovra-utilizzo di servizi e prestazioni sanitarie inefficaci o inappropriate (6,48 mld), frodi e abusi (4,75 mld), acquisti a costi eccessivi (2,16 mld), sottoutilizzo di servizi e prestazioni efficaci e appropriate (3,24 mld), complessità amministrative (2,37 mld), inadeguato coordinamento dell’assistenza (2,59 mld)».
Sono queste le voci dove occorre intervenire, evitando, invece di risparmiare sui bilanci con la pratica di esternalizzare alcuni servizi consegnandoli a contratti precari come avviene con il personale sanitario appaltato per pochi mesi e soggetto all’incertezza del rinnovo.
Il dibattito sul futuro di una sanità pubblica, ormai, non è più rimandabile, ma resterebbe asfittico senza la consapevolezza espressa a livello internazionale e dal Centro nazionale per la prevenzione e il controllo delle malattie (organismo di coordinamento tra il ministero della Salute e le Regioni) secondo cui «la salute delle persone non dipende soltanto dall’offerta dei servizi sanitari e dagli stili di vita», ma deve riguardare tutte le politiche. Lo hanno insegnato, con la loro vita, Gabriele Bortolozzo a Porto Marghera e Bruno Pesce ad Alessandria, lavoratori in prima linea nel denunciare i seri danni alla salute di tutti da parte dell’industria petrolchimica e dell’amianto. Lo sa bene chi si batte per realizzare grandi interventi di bonifica di troppi territori in Italia. La salute si può difendere se è per tutti.
Il Servizio sanitario nazionale
Il Servizio sanitario nazionale (Ssn), istituito con la legge 833/78, ha subito ulteriori interventi fino alla revisione costituzionale della legge 42/2009. Ha il compito di attuare il principio costituzionale della tutela della salute. A tal fine sono determinanti i Livelli essenziali e uniformi di assistenza (Lea), da garantire a tutti i cittadini e il fabbisogno finanziario per realizzarli.
All’attuazione del Ssn concorrono Stato, Regioni e Asl. Lo Stato adotta il Piano sanitario nazionale (Psn), definisce i Lea e le prestazioni sanitarie e sociali con relative modalità di remunerazione, emana atti di indirizzo tecnico-scientifico su problemi di rilievo nazionale o internazionale. Le Regioni adottano il Piano sanitario regionale (Psr), definiscono i criteri per organizzare le Asl e per integrare servizi sanitari e servizi sociali comunali, accreditano e convenzionano gli erogatori di prestazioni, pubblici e privati. Le Asl e le aziende ospedaliere hanno autonomia giuridica, sono guidate da un direttore generale di nomina regionale, adottano il Piano attuativo locale (Pal), erogano i Lea concordati con la Regione. Gli operatori del Ssn sono dipendenti o convenzionati. Le Asl garantiscono ai dipendenti l’esercizio della libera professione intra-moenia, disciplinandone modalità e spazi. Il Ssn si avvale dell’Istituto superiore di sanità e dell’Istituto superiore per la prevenzione e sicurezza sul lavoro per il supporto tecnico- scientifico, dell’Agenzia per i servizi sanitari regionali per il supporto alla programmazione e al controllo, del Consiglio superiore di sanità come organo consultivo in materia di politiche sanitarie.
Lo Stato stabilisce livelli e tipologie di partecipazione alla spesa da parte dei cittadini per le prestazioni ricevute; le Regioni ne possono stabilire autonomamente altri per coprire disavanzi di gestione. I cittadini possono scegliere luogo di cura e curanti.
Salviamo la salute pubblica
I 12 punti proposti dalla Fondazione Gimbe per la campagna #salviamoSSN sono la base per avviare un confronto politico sul mantenimento della sanità pubblica In Italia
- Salute al centro di tutte le decisioni politiche non solo sanitarie, ma anche industriali, ambientali, sociali, economiche e fiscali; certezze sulle risorse per la sanità;
- stop alle periodiche revisioni al ribasso e rilancio del finanziamento pubblico;
- maggiori capacità di indirizzo e verifica dello Stato sulle Regioni nel pieno rispetto delle loro autonomie;
- costruire un servizio socio-sanitario nazionale, perché i bisogni sociali sono strettamente correlati a quelli sanitari;
- ridisegnare il perimetro dei Lea secondo evidenze scientifiche e princìpi di costo-efficacia e rivalutare la detraibilità delle spese mediche secondo gli stessi criteri;
- eliminare il superticket e definire criteri nazionali di compartecipazione alla spesa sanitaria equi e omogenei;
- piano nazionale contro gli sprechi in sanità, per recuperare almeno 1 dei 2 euro sprecati ogni 10 spesi;
- riordino legislativo della sanità integrativa per evitare derive consumistiche e di privatizzazione;
- sana integrazione pubblico-privato e libera professione regolamentata secondo i reali bisogni di salute delle persone;
- rilanciare le politiche per il personale e programmare adeguatamente il fabbisogno di medici, specialisti e altri professionisti sanitari;
- finanziare ricerca clinica e organizzativa: almeno l’1% del fondo sanitario nazionale per rispondere a quesiti rilevanti per il Ssn;
- programma nazionale d’informazione scientifica a cittadini e pazienti per debellare le fake-news, ridurre il consumismo sanitario e promuovere decisioni realmente