Rita Borsellino ci ha lasciato
Per lei restiamo sempre i suoi ragazzi, anche se l’anagrafe dichiara ben altro e siamo ormai professionisti nei campi più vari. Per lei siamo sempre quelli del 2006, gli studenti del treno che da Milano arrivò in Sicilia per votare, nelle elezioni regionali, il primo progetto di democrazia partecipata under 30. E lei resta sempre Rita, anche se è stata onorevole all’assemblea regionale siciliana e al Parlamento europeo. E resta sempre la sorella di Paolo Borsellino, il magistrato assassinato 25 anni fa in via d’Amelio a Palermo: un binomio inscindibile nella vita privata e nella lotta alle mafie di cui Rita ha raccolto il testimone.
Che cosa è la giustizia per Rita Borsellino? La giustizia, per me, era incarnata da Paolo. Il modo in cui faceva e viveva il suo lavoro non era qualcosa oltre la sua vita, era la sua vita e la scelta di ogni sua giornata. Lui si comportava secondo giustizia e poi la applicava agli altri. Quando era piccolo e tornava da scuola, ripeteva spesso: «Non è giusto!». Questa frase è diventata la sua vita, la sua professione perché voleva che tutti avessero le stesse opportunità e non ci fossero diseguaglianze: ha studiato diritto perché tutti potessero godere e usufruire della giustizia allo stesso modo ed è quello che ha perseguito fino alla fine e per cui ha sacrificato la vita.
In questo rapporto unico con Paolo, quanto ha contato il tuo essere donna, quanto l’essere donna incide nella resistenza alle mafie? Io ho fatto di tutto perché la me- moria di Paolo restasse viva nelle persone e questa è una parte che le donne fanno straordinariamente, ma io non sono Paolo: sono troppo diversa e non ho la sua competenza. La mia non è lotta contro la mafia perché io non posso fare nulla di scientifico o giudiziario come lui, ma in questa lotta io posso contribuire a formare una società diversa, dove le persone si comportino in modo tale che queste cose orribili accadute a noi non siano più possibili. Io faccio la mia parte perché un pezzo del mio Paese non sia territorio dominato dalla mafia, ma una democrazia partecipata in cui ciascuno si sente responsabile della propria cittadinanza. Questo è quello che ho provato a consegnare ai ragazzi e me lo aveva insegnato Paolo che andava nelle scuole credendo al ruolo che i giovani potevano avere nel nostro Paese.
A proposito di giovani, una di loro, dopo alcuni anni a Torino, è tornata e mi ha scritto che non trova né un lavoro, né uno stage non retribuito. Dove trovare il coraggio di resistere e non fuggire? Si trova nell’amore per questa città. Io sono rimasta solo per amore anche se vedo tutti i limiti e mi fa star male l’esperienza vissuta da questa ragazza. Vorrei che lei potesse vedere quanto in questi 25 anni Palermo è cambiata e quanti segni di novità ci sono, anche se non mancano i problemi e la mancanza di lavoro è crudele qui come in tutta Italia. Nella città si sono fatti sforzi enormi e un segnale è stata la rielezione di Orlando a sindaco. È stato criticato per questo ennesimo mandato ma è anche vero che se Palermo è diventata capitale della cultura europea e ha ricevuto un riconoscimento come “città dei giovani” – un riconoscimento paradossale se penso a questa ragazza – è perché dietro c’è un lavoro duro, anche se i risultati sono lenti ma perché sono difficili. I segni della sofferenza, e di quello che era, ci sono tutti e sono tragicamente presenti e vivi, ma Palermo è cambiata.
Non pecchi di un eccesso di ottimismo? Se si continua ad essere scoraggiati, a non vedere le potenzialità e a non fare sacrifici per portare avanti il bene, tutto diventa più difficile. Ci vuole coraggio per restare a Palermo, ma ci vuole più coraggio a tornare a Palermo dopo che si è vissuta una vita diversa e questa ragazza ne ha avuto tanto. Il coraggio ti può venire solo dall’amore per questa città. Paolo è rimasto nonostante tutto e lui sapeva della sua fine eppure ripeteva quella frase ormai famosa: «Palermo non mi piaceva e io ho imparato ad amarla per questo, perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare». Amarla da lontano è bello ma serve a poco ed io lo ripeto anche ad una mia nipote e a mio figlio che non vogliono tornare.
Hai parlato del sacrificio. Qual è il senso del sacrificio per Rita? Ci sono due risvolti nel sacrificio: uno è quello della sofferenza e delle conseguenze di questo patire. Le vivi sulla pelle proprio per i cambiamenti che ti richiede e comporta. Poi c’è l’aspetto del vantaggio che arriva quando sai vivere il sacrificio con entusiasmo e riconosci che stai facendo qualcosa di buono che non sarà per te, perché tu vivrai più i sacrifici che i benefici, ma sai che i benefici arriveranno e altri li vivranno dopo di te e grazie a te.
Come si vive una sofferenza così grande, come quella del 19 luglio 1992, quando Paolo e la sua scorta vennero assassinati? La sofferenza si vive solo accettandola. Se tu pensi di poterla contrastare, di poterti contrapporre, allora soffrirai ancora di più. Io l’ho imparato allora e lo sto vivendo anche adesso che è un momento non semplice. Se stai a chiederti costantemente “perché”, “se fosse stato diverso”, “se ci fossimo comportati in altro modo”, non risolvi molto. Bisogna partire dalla situazione come è e trovare tutti gli strumenti per poterla affrontare. Accettandola, ci si attrezza a combattere perché non si può modificare cosa ci accade, ma possiamo fare in modo che le conseguenze non siano quelle che altri vogliono costringerci a scegliere. Dopo via d’Amelio nessuno poteva immaginare la rinascita e invece la rinascita c’è stata.
Perché, dopo l’esperienza di deputato regionale ed europeo, hai deciso di abbandonare la politica? In questo abbandono alcuni leggono un rallentamento del cambiamento in Sicilia… È un’analisi comoda che rifiuto categoricamente. Sono entrata in politica 15 anni dopo la morte di Paolo. Io lavoravo con l’associazione Libera, con le scuole e mi sono impegnata in un momento in cui pensavo che il mio contributo fosse indispensabile. In quel periodo si stavano facendo scelte inaccettabili, come candidare Totò Cuffaro, pur consapevoli dei suoi legami non trasparenti e dopo un anno e mezzo sappiamo tutti come è finita: è stato arrestato e l’assemblea sciolta e quindi sono tornata a fare quello per cui mi sento più portata, cioè l’impegno sociale. Poi c’è stata la candidatura alle Europee. Avevo capito che, se volevo far politica, non potevo farla né in Italia e neppure in Sicilia, dove si era messa in moto una macchina da guerra che aveva e avrebbe annullato qualunque possibilità. Si è aperta la strada dell’Europa, dove non pensavo di essere eletta e invece sono arrivata con un bagaglio di voti importanti che mi ha permesso di lavorare nella lotta alla mafia, un ambito per cui si era fatto poco, per non dire nulla: pensa che la parola mafia non era mai stata scritta in nessun documento ufficiale. Anche se i tempi sono più lunghi, lavorare al Parlamento europeo è più semplice e se ti impegni, attraverso le commissioni speciali, riesci ad influire con buoni risultati.
E allora perché hai lasciato? Sono stata coerente con quanto avevo detto: un solo mandato, avviare un progetto sulla mafia, tornare a casa e fare ciò che più mi piaceva: stare con i ragazzi, educare. Quando ho annunciato con molto anticipo che non mi sarei più candidata, non ho ricevuto una parola di consenso, né un apprezzamento, né un commento, come se non fossi mai stata un deputato europeo e non avessi fatto nulla in Europa. Questo silenzio mi ha ferita profondamente, anche se avevo già deciso di non fare politica attiva. Mi sono sentita “un’insalutata ospite” e sono tornata a casa per continuare quello che sapevo fare meglio: aiutare a cambiare le coscienze. Recentemente ho ricevuto una telefonata da un’esponente di un altro gruppo politico europeo che ha ripreso in mano la risoluzione presentata da me e la sta accompagnando nell’iter legislativo, anzi ha già ricevuto una prima approvazione in Parlamento. Lei era molto contenta, ma lo sono di più io perché il lavoro fatto non è finito nella pattumiera ed è importante che qualcuno continui con la stessa passione senza preoccuparsi dello schieramento politico: la lotta alla mafia non ha parti politiche e non deve averne. Non accetto che si dica che io ho abbandonato dopo che mi hanno abbandonata. Ho voluto sempre restare libera e ci sono riuscita, anche se le scelte sono sempre difficili; io ho cercato solo di essere sempre coerente.
Hai una frase o un motto che ti ripeti quando sei scoraggiata? Questa frase me la sono detta quando sono arrivata in via d’Amelio, quando ero davanti all’orrore e ho cominciato a prendere coscienza di quello era successo. La prima reazione è stata girare le spalle e scappare. La reazione dei miei figli è stata più matura perché mi hanno detto che, da quel momento, quel luogo era sacro e lo avremmo dovuto custodire. Da allora, la frase che mi ripeto anche nei momenti più crudi della mia vita è: «Io non gliela do vinta». Perché sono rimasta a vivere in via d’Amelio? Perché non gliela do vinta. Sono loro che devono andare via e non io. Noi dobbiamo restare e custodire questi luoghi sacri e la Sicilia è tutta un luogo sacro, basta camminare per le strade di Palermo e di altre città per accorgersi che tutto è un memoriale e non si può dimenticare, anzi non va dimenticato. Come possiamo pensare di dargliela vinta fuggendo? Hanno avuto ragione loro? Assolutamente no.
Se pronuncio la parola “futuro”, come mi risponde Rita? Per me è un momento di bilanci e vivo quello che si presenta giorno per giorno, mentre lascio che a progettare siano altri. Forse perché le forze sono più fragili, vedo quanto si sono prodigati altri per organizzare ad esempio il 19 luglio e questo mi dà speranza per il futuro. È nato anche il Centro Paolo Borsellino e io cerco di spingerlo perché capisco che la mia presenza lo aiuta a consolidarsi, ma so che ha già gambe, teste e passione oltre me e sono quelle dei miei ragazzi: ovunque sono, ovunque vivono, Paolo e la sua battaglia vivono con loro.