I rider al tempo del coronavirus
L’epidemia di coronavirus pone nuovamente sotto i riflettori la questione delle tutele che spetterebbero alla categoria dei rider, quei fattorini in bici che effettuano consegne a domicilio, che normalmente prenotiamo tramite una app di food delivery. Infatti, se i servizi di ristorazione al pubblico sono sospesi (tranne che in alcune situazioni come le mense aziendali o quelle per i poveri o i senza fissa dimora), le consegne a domicilio sono tuttora attive.
Da qui la protesta dei rider, a partire da quelli torinesi del collettivo Deliverance Project, che hanno lanciato un appello a Giuseppe Conte, presidente del Consiglio dei ministri, volto a chiedere lo «stop ai servizi di consegna e reddito garantito per i rider lasciati a casa». Il numero dei rider stimati in Italia si attesterebbe a 10 mila unità.
Inoltre, i rider proseguono il loro servizio senza che la piattaforma per la quale effettuano le consegne abbia fornito loro quei dispositivi di protezione individuale che tutte le aziende italiane dovrebbero ora mettere a disposizione dei propri dipendenti. Il nocciolo della questione è proprio questo: le piattaforme di consegna del cibo a domicilio come Deliveroo (che, dal 16 marzo, ha la funzione “Consegna senza contatto”), Glovo, Just Eat, Foodys o Uber Eats (che ha sospeso il servizio di consegne a domicilio in alcune città), si considerano come semplici mediatori tra ristoranti e lavoratori e non veri e propri datori di lavoro, con tutte le conseguenze del caso. Un decreto approvato nell’agosto 2019 ha deluso i rider, poiché viene prevista una combinazione di paga oraria, che scatta se si accetta almeno una consegna ogni ora, e il cottimo.
Oltre a ciò, secondo quanto segnalato dalla Federazione italiana pubblici esercizi di Confcommercio, alcune compagnie di food delivery stanno aumentando le commissioni imposte ai ristoranti partner che in questi giorni hanno deciso di continuare a lavorare, portandole dall’attuale 26-30% di commissione su ogni ordine al 40%. Ancora, altre piattaforme hanno cancellato il servizio, senza preavviso per ristoratori e rider, in zone dove sono rimasti aperti pochi esercizi dai quali attingere pietanze da consegnare.
D’altronde, in questi giorni, le consegne a domicilio sono comunque in flessione, ma molti rider sono costretti a restare in strada, a rischio di contagio, nella speranza di potere compiere qualche consegna e garantirsi un introito giornaliero. Anzi, essendo pochi i ristoranti aperti, vi si formano fuori lunghe file di rider nella speranza di poter effettuare una consegna, diventando, di fatto, un potenziale focolaio di trasmissione del virus.
Oltre a ciò, i rider lamentano di non avere alcuna garanzia contrattuale sulla malattia né i dovuti dispositivi di sicurezza per proteggersi e proteggere le persone con le quali entrano in contatto. Deliveroo ha annunciato un fondo di supporto per i rider, grazie al quale coloro che contraggono il coronavirus o quelli a cui l’autorità sanitaria impone l’isolamento possano avere diritto a un sostegno finanziario.
Infatti, molti rider desidererebbero fermarsi: «La nostra salute vale più di una pizza», dichiarano, ma in tanti non riescono o non possono, sia perché hanno spese correnti da affrontare sia perché con il sistema del ranking (cioè l’assegnazione a ciascun rider di un punteggio in funzione della disponibilità, il numero di consegne effettuate e la velocità delle stesse), rinunciare di propria iniziativa a qualche settimana di lavoro comporterebbe il rischio dell’azzeramento del proprio punteggio, con la prospettiva di non essere più richiamato a lavorare. Da qui la richiesta al Governo di sospendere anche le consegne a domicilio e la predisposizione di specifiche misure di sostegno al reddito, che qualcuno chiama già reddito di quarantena.
Il tema è complesso e in continua evoluzione e, ovviamente, non può svilupparsi qui. Nel nuovo decreto del Governo italiano dedicato all’economia e al lavoro, non vi è traccia di misure rivolte alla categoria dei rider. Quel che è certo è che, nuovamente, come nel caso delle crisi economiche, le spese dell’epidemia di Covid-19 non possono farle sempre e solo le categorie meno tutelate o coloro che vivono ai margini della società.