Una pietà difficile per Riina
L’ho incontrato per la prima volta in un’aula del tribunale di Palermo. Ero lì con alcuni colleghi per assistere ad una delle udienze sulla scomparsa del giornalista de L’ora, Mauro de Mauro. Quando le camere si sono accese, il silenzio è sceso tra i banchi e lui, Totò Riina in videoconferenza da un carcere di massima sicurezza ha preso posto solennemente a fianco del suo avvocato. Molti dei presenti avevano già incrociato il suo sguardo in passato, ma ancora una volta, anche quel giorno, non riuscivano a staccarsene: Riina era un magnete. Rispondeva con estrema lucidità e fermezza alle domande del pm Antonio Ingroia e fissava negli occhi la corte e i giudici. Mani intrecciate, postura eretta, sembrava più ingrassato e invecchiato da quel 15 gennaio del 1993, quando la sua latitanza si concluse su viale Regione Siciliana a Palermo a bordo di una comune Citroen.
Ho assistito ad altre udienze del processo e Riina non è mai mancato a nessuna, con giacca imbottita o camicia e maglia, ci sovrastava dagli schermi e ci inquietava pur a distanza. Mai ha mostrato segni di cedimento o irritazione per le tante accuse mosse. Il processo si concluse con l’assoluzione, almeno per quell’omicidio, non così è accaduto per gli assassinii di Michele Reina, Piersanti Mattarella, Pio La Torre, Cesare Terranova, Gaetano Costa, Rocco Chinnici, Mario Francese, Boris Giuliano, Emanuele Basile, Mario D’Aleo, Ninni Cassarà, Giuseppe Montana, Paolo Giaccone, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Salvo Lima, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e i molti altri sodali magari ad altri gruppi criminali a cui aveva dichiarato guerra e di cui aveva decretato la morte: la condanna a 26 ergastoli è stata la sua pena, ma neppure il carcere duro è riuscito a piegare la ferrea disciplina dell’onore che si era imposto e neppure l’età avanzata (87 anni) l’ha condotto ad una saggia e ultima autocritica.
Riina è morto e con lui sono morti i segreti di un trentennio di guerre mafiose e di lotte alla mafia, ma Cosa Nostra non è certo morta perché ha perso uno dei capi più autorevoli. Esperti di criminalità prevedono vertici e incontri che ristabiliranno un nuovo gotha amministrativo e una nuova strategia d’azione per l’impero dell’illegalità. Con Riina è morta però una certa mafia, quella stragista e sanguinaria, quella dove lo scettro spettava al tritolo e ai kalashnikov, ma anche quella che ha portato alla defezione tanti “picciotti” e ne ha reso difficile gli arruolamenti. Ora Cosa Nostra ha affinato la strategia sotterranea e usa le armi della corruzione, degli affari, della finanza e del potere illecito per mantenere il suo governo, senza ricorrere alla ferocia di cui il boss era emblema.
Il nome di Riina resta indissolubilmente legato a Corleone, la città in cui è nato, si è sposato, ha avuto figli, quella che ha visto la sua ascesa criminale e respirato gli effluvi della sua crudeltà. Al momento, non ci è noto se tornerà nella sua patria e se la sua salma sarà accolta qui. La sua morte libera da un pesante fardello tutti i suoi omonimi, perché Salvatore Riina, in questa piccola città barocca sui monti Sicani è un nome estremamente comune. Io stessa ho stretto la mano ad alcuni di loro e quando per la prima volta quel “Riina” è stato pronunciato porgendomi la destra, un brivido gelido ha attraversato sia me che il mio interlocutore, che si premurava nel precisare: «Sono quello buono». Già, perché il cattivo era uno solo, mentre tutti gli altri ne scontavano gli effetti della nomea: fermi e perquisizioni agli aeroporti, negli ospedali prima di una visita medica, ai posti di blocco. E file, attese, verifiche e controprove fino al rilascio e fino alla prossima volta. I figli di Riina e la moglie, che qui vivono, scontano un’eredità pesante e per quanto Salvatore con il suo libro e le sue apparizioni televisive abbia provato a restituire una dignità paterna al suo genitore, i troppi testimoni di giustizia e i parenti delle vittime ne hanno conosciuto ben altri tratti. A chi, nei mesi scorsi, imputava ai giudici la vendetta poiché non hanno concesso i domiciliari a Riina, Rita Borsellino, sulle pagine di Città Nuova commentava: «La Costituzione non cerca vendette ma deve far applicare la giustizia. Tutto qui. Ci sono norme ben precise che vanno applicate e ci sono i giudici deputati a farle applicare».
Non c’è vendetta per Riina, neppure nella serena fermezza con cui la Chiesa non ha concesso funerali pubblici, pur assicurando, se richieste, le preghiere in privato di un sacerdote. Riina non si è mai pubblicamente pentito delle sue azioni, non ha rifiutato nulla del suo passato, non ha voluto intraprendere un cammino di conversione e di riparazione del danno: una grammatica di valori necessaria anche alla società civile per imparare a distinguere, ad approvare e disapprovare. Non mancheranno interrogativi legittimi su questa scelta e sul valore del perdono e della misericordia: domande che ci inquietano e che non hanno risposte univoche e assolute, ma hanno un termine di confronto nelle vittime e nelle loro famiglie. Stamani mi sono augurata che nell’incontro più importante della sua vita, quello con l’Aldilà, Riina abbia acquistato la consapevolezza del male e della sofferenza provocata e che in quel momento il dolore abbia aperto uno spiraglio di resurrezione anche nella sua anima, a noi rimasta impenetrabile. Ed è su questa speranza che la pietà, anche in me, ha mosso qualche timido passo.