Operazione Irini, buone intenzioni in ordine sparso
La nuova operazione navale Irini, targata Unione europea, fa seguito alla Conferenza di Berlino sulla Libia del 19 gennaio 2020 ed è stata ufficialmente varata all’inizio di aprile con lo scopo dichiarato di bloccare l’afflusso di armi in Libia. Sono passate due settimane e le sole navi che pattugliano il mare di fronte alla Libia sono cinque fregate turche, che intuitivamente potrebbero per l’appunto proteggere la consegna di armi destinate ai miliziani del Gna a Tripoli e Misurata, dove in precedenza i militari turchi avevano trasferito da Idlib, nel Nord Ovest della Siria, alcune migliaia di combattenti siriani filo-turchi. Le armi per il rivale esercito del generale Haftar (Lna) arrivano a Bengasi via terra, o lungo costa, dal vicino Egitto, sostanzialmente fuori dalla portata di un eventuale futuro blocco navale europeo, alle attuali condizioni.
L’ex capo di stato maggiore della Marina Militare Italiana, l’ammiraglio Giuseppe De Giorgi, ha scritto al quotidiano Avvenire sull’operazione Irini una lettera aperta, pubblicata il 9 aprile. Afferma fra l’altro De Giorgi: «Sinora solo la Grecia e l’Italia hanno dichiarato di essere realmente pronte a mandare le proprie navi in mare», anche se non l’hanno ancora fatto. «La Francia – continua l’ammiraglio – sarebbe disponibile a partecipare con una sua nave, ma non prima della metà di maggio, mentre la Spagna limiterebbe il suo contributo a un aereo da pattugliamento della Marina. Germania non pervenuta… Con sole tre navi… la presenza media in zona di operazioni si ridurrebbe ottimisticamente a due unità. Se non se ne aggiungessero altre, il “blocco navale” sarebbe assai permeabile».
È vero che l’Ue è in tutt’altre faccende affaccendata a causa del coronavirus e degli eurobond, ma come si può facilmente intuire c’è molto altro nel non detto relativo all’Operazione Irini. L’embargo di armi che punterebbe ad attuare non è una novità, essendo stato decretato dall’Onu fin dal 2011, all’indomani dell’attacco Nato alla Libia di Gheddafi, ma non è mai stato rispettato. Oggi la Libia è «il più grande arsenale di munizioni non controllato al mondo». Lo sostiene il vice rappresentante speciale del segretario generale Onu in Libia, Yacoub El Hillo, secondo il quale si stima che nel Paese ci siano, oltre ad artiglieria, velivoli e sistemi d’arma a bizzeffe, fra 150 e 200 mila tonnellate di munizioni non controllate, e un utilizzo enorme di droni. Il motivo è la quantità di interessi e Stati coinvolti nella vicenda libica, che si riflette sulle forniture di armi.
Le armi fornite alle fazioni libiche non sono però generalmente prodotte dai fornitori diretti. E qui emerge la contraddizione che sta dietro all’Operazione Irini varata dall’Ue. Nel quadro complessivo della produzione e vendita di armi va infatti rilevato che i Paesi dell’Ue sono tra i maggiori esportatori di armi al mondo: Francia, Germania, Spagna, Italia e Olanda, insieme a Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna e Israele controllano circa il 90% del mercato mondiale di armi, e l’Ue nel suo complesso è il secondo produttore mondiale. Una gran parte di queste armi la si ritrova poi in Medio Oriente e nel Nord Africa. Nell’area mediorientale ci sono infatti alcuni fra i maggiori acquirenti mondiali di armi, fra i quali emergono l’Arabia Saudita, l’Egitto, gli Emirati Arabi e l’anno scorso perfino l’Algeria.
Alla luce di questo contesto più ampio, che senso ha l’Operazione Irini? Volendo vedere il positivo a tutti i costi, la sensazione è che l’Ue manifesta forse delle buone intenzioni ma ben poca concretezza e trasparenza, e per di più nel solito ordine sparso dei Paesi membri. Le buone intenzioni sono sempre apprezzabili, come scriveva qualche secolo fa san Francesco di Sales nelle Lettere spirituali: «Non vi turbate per il detto di san Bernardo che l’inferno è pieno di buone intenzioni e proponimenti».
Intanto in Libia combattono non solo lo schieramento di Tripoli contro quello di Bengasi, ma anche le milizie che li compongono. Nei giorni scorsi, per esempio, una milizia ha chiuso il grande acquedotto costruito da Gheddafi per spingere al rilascio dei parenti sequestrati di alcuni affiliati, con il risultato che da diversi giorni due milioni di persone sono senz’acqua. Con il contagio da coronavirus che avanza, a Tripoli manca anche l’acqua per lavarsi le mani e l’elettricità va e viene, anzi più va che viene, pur navigando su un lago di petrolio.