Non basta un tweet per fare una legge

L’opinione di un politico non diventa automaticamente norma dello Stato. Gli annunci tonitruanti non fanno giurisprudenza. Ma la politica non ha mai voluto affrontare seriamente il problema dell’immigrazione, dal 1955

Siamo abituati a trascorrere l’estate sentendo parlare molto di sbarchi e di migranti morti in mare ma indubbiamente quella del 2018 sta superando livelli da record. Non solo per lo spazio che i mass media dedicano all’argomento, ma soprattutto per i toni aspri e violenti con cui il tema è affrontato. E per la grande quantità di notizie false messe in circolazione da persone che, tramite i social, suscitano odio, rancore, risentimenti verso gli immigrati facendo leva su fatti e considerazioni infondate sia nei fatti che nei riferimenti di legge.

Un altro aspetto davvero sbalorditivo – che indica la bassa levatura culturale e civile di alcuni esponenti di governo – è che tramite un “piccolo” tweet si impongono alla conoscenza popolare delle decisioni che ancora non sono state trasferite in una legge o in un decreto, ma è come se lo fossero. Un esempio: quando il ministro Matteo Salvini ha detto: «I porti italiani saranno chiusi» e il ministro Toninelli ha ribadito, ancora con un tweet, che davvero i porti italiani erano stati chiusi (alle Ong), tutti abbiamo creduto a quanto dichiarato. Tranne evidentemente qualche bravo giornalista che ha iniziato a cercare il decreto di chiusura dei porti che, in realtà, non era mai stato emanato. Eppure tutti eravamo certi che il diritto avesse detto la sua parola e che la frase affidata ai social fosse successiva e conseguente alle carte bollate. Invece non era così.

Oltre a questa frase, molto emblematica e ben nota, c’è davvero poco di giuridico in quanto sta accadendo in questi mesi: non è sufficiente che un esponente di governo esprima perentoriamente un pensiero affinché diventi immediatamente “legge vigente”. Ed è chiaro che il tentativo in atto da parte di chi usa i toni più forti è proprio quello di convincere i cittadini che con una frase si possono fare e disfare le leggi. O comunque aggirarle.

Qualche motivo per cui siamo arrivati a questa situazione è possibile individuarlo nella nostra storia recente. In tema di accoglienza degli immigrati, ad esempio, l’Italia oggi sta pagando il conto di tutto quello che, consapevolmente, non ha fatto negli ultimi cinquant’anni. La Convenzione di Ginevra del 1951, che ha definito lo status di rifugiato, è entrata in vigore in Italia nel 1955. La firma della Convenzione avrebbe dovuto indurre ad attivare celermente le procedure per dare attuazione a quanto sottoscritto, ma così non è stato. Quindi è dal 1955 che in Italia avremmo dovuto iniziare a pensare al sistema di accoglienza, ai percorsi di integrazione, all’organizzazione del sistema scolastico e sanitario anche in vista dell’arrivo di persone provenienti, forzatamente, da oltreconfine. Al contempo altri Stati europei si sono attrezzati tempestivamente. La Germania, ad esempio, da oltre quaranta anni ha avviato una robusta organizzazione per affrontare le ondate immigratorie (con ottimi risultati anche sul piano economico nazionale). L’Italia invece ha sistematicamente avviato dei piani transitori di intervento solo per fronteggiare le emergenze periodiche.

Negli ultimi anni la parola “emergenza” – da noi – ha perso ogni significato sostanziale e ha lasciato nell’animo degli italiani il senso della precarietà e dell’insicurezza: i nostri governanti sono stati abili manipolatori al punto da convincerci che la responsabilità dell’immigrazione è solo degli immigrati, mentre noi, gli italiani, siamo le vittime di tale emergenza e quindi degli immigrati di cui dobbiamo anche avere paura. Da questa visione distorta deriva la proclamata ma prevalentemente infondata necessità di cambiare le regole già stabilite in Europa e in Italia, alle quali non siamo pronti semplicemente perché non abbiamo fatto nulla per esserlo. E certi processi non si attivano in pochi anni né tanto meno in pochi mesi.

In realtà noi siamo delle “vittime”, certamente, ma della visione che ci è imposta da slogan stereotipati e anacronistici dei nostri governanti, che si ripetono a ritmo ossessivo da anni e servono a nascondere l’enorme responsabilità dei governi che non hanno affrontato mai la questione immigrazione in modo serio e coerente con la storia europea e le vicende politiche e belliche delle zone mediorientali, africane e asiatiche.

La capacità di assumere delle responsabilità è una cosa seria sia a livello personale che istituzionale: oggi le organizzazioni non governative che solcano il Mediterraneo ce lo dimostrano con vigore. E anche la Guardia costiera italiana che riesce, nonostante gli ordini, ad esercitare una sorta di obiezione di coscienza e a proseguire nel mandato degli uomini di mare: salvare vite umane. Questo è l’imperativo a cui dovrebbe rispondere ogni coscienza, in mare e sulla terra: salvare vite umane e condurre le persone a riacquistare libertà e dignità in una terra – la nostra – che se anche è straniera certamente sa essere in buona parte un po’ fraterna.

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