Non basta un bonus per povertà e denatalità
Il gruppo Mediobanca utilizza il volto ironico di Nino Frassica, il popolare attore che interpreta il maresciallo Cecchini nella serie don Matteo, per una pubblicità a tappeto sui prestiti offerti dalla sua società finanziaria, la Kompass. Non meno suadenti sono i messaggi delle le finanziarie degli altri gruppi bancari come Bnp Paribas (Findomestic) e Crédit Agricole – Banco Bpm (Agos Ducato). Prima ancora dei dati ufficiali dell’Istat, basterebbe questo segnale a far capire il serio stato di crisi in cui si trovano oltre 18 milioni di italiani che sono a rischio povertà e indigenza. Il mercato dei prestiti, incentivato dalle stesse banche, è ancora accessibile a chi ha un reddito seppur modesto come garanzia e serve a coprire spese impreviste insostenibili. Dalle spese mediche al cumulo di bollette scadute.
Per tutto il resto si apre talvolta il pronto soccorso delle reti amicali o, troppo spesso, la voragine dell’usura.
È in questo contesto difficile che deve leggersi il forte afflusso negli uffici comunali delle richieste del Rei (reddito inclusione), la misura di contrasto alla povertà assoluta operativa dal primo di dicembre 2017, che può raggiungere fino a 480 euro al mese per un nucleo familiare di 5 persone.
Presentato come il primo passo di un intervento strutturale di carattere universalistico, rivolto cioè a tutti coloro che versano in grave deprivazione, l’erogazione in denaro, tramite una card, dovrebbe associarsi ad «un percorso di inclusione lavorativa sotto la regia dei servizi sociali del comune».
MILIARDI DI SPESA
Di fatto, gran parte degli enti locali non hanno le risorse per portare avanti un compito ciclopico come il reinserimento dei troppi esclusi dal lavoro. La versione originaria del Reis (reddito inclusione sociale) presentata dalle 35 associazioni riunite nell’Alleanza contro la povertà prevedeva, infatti, un impegno di spesa di 7 miliardi di euro, mentre il finanziamento introdotto dal governo stanzia 2 miliardi l’anno per il 2018 e per il 2019. Chi ogni giorno vede gli effetti devastanti dell’indigenza non può che salutare positivamente qualsiasi aiuto destinato a chi è in povertà assoluta, ma non si può tacere, come ha ricorato l‘Alleanza guidata da Acli e Caritas, che solo il 38% riceverà dal prossimo gennaio il Rei.
Non si può quindi eludere un vero confronto sulle priorità delle scelte politiche.
L’ex ministro del Lavoro Enrico Giovannini, ad esempio, ha affermato da tempo che si potevano destinare alla lotta contro la povertà i 10 miliardi di euro annui corrisposti col bonus di 80 euro mensili riconosciuto ai percettori di redditi medio bassi (tra 8 mila e 24 mila euro annui nel 2017). Un bonus, è bene ricordare, svincolato da ogni parametro familiare: uno dei coniugi lo ottiene, se resta nei parametri, anche se l’altro percepisce un reddito alto. Sull’efficacia di tale scelta, intesa a far aumentare i consumi, esistono pareri discordi. Tuttavia lo stesso Istat, che sforna numeri da paura sulla povertà, conferma anche la crescita del reddito medio tra gli italiani trainata dal quinto di popolazione più ricca. Cresce la diseguaglianza. E con questa il rancore, come ha detto l’ultimo rapporto del Censis sullo stato del Paese. Un livore che rischia, purtroppo, di sfogarsi contro i più deboli.
Come è possibile in una società del genere sperare in una crescita della propensione a mettere al mondo un figlio? La denatalità è destinata a restare un tratto distintivo dell’Italia che non si può esorcizzare con incentivi, come il bonus bebè, al centro di una tira e molla sulla legge di bilancio che ha stabilito per il 2019 la riduzione a 40 euro al mese, invece di 80, per un anno di vita del figlio, invece di tre. Sempre che i genitori non abbiano un reddito Isee superiore ai 25 mila euro. Molto chiasso, quindi, per un contributo che copre appena le spese per i pannolini, quando, come sanno tutti, le necessità di un figlio crescono e non diminuiscono con gli anni.
MISURE STRUTTURALI
In generale è proprio il concetto di incentivo o di bonus che è inadeguato davanti ad un sistema che genera diseguaglianza ed esclusione. Le famiglie sono le prime a capire che è la carenza di lavoro e la sua precarietà la prima minaccia alla vita. Anche gli ultimi dati della relazione integrata del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Istat, Inps, Inail e Anpal che parla di una crescita del numero di occupaticon riferimento quasi esclusivo ai contratti a termine liberalizzati con la riforma Poletti.
Prendendo l’esempio caro a Gigi De Palo, presidente del Forum delle famiglie, dei 2 etti di prosciutto da dividere tra sei componenti di una famiglia numerosa, bisogna tener presente quanto di quel reddito insufficiente è determinato da un fisco ingiusto e quanto da una redistribuzione della ricchezza che privilegia i ceti sociali più alti. Una visione, quindi, che tenga conto dell’insieme e che ha bisogno di un noi capace di non lasciare nessuno da solo.
Un segnale in tal senso ci è arrivato dalla solidarietà immediata dimostrata dai dipendenti dell’Ikea di Corsico a Milano, verso una loro compagna di lavoro licenziata perché incapace di rispettare nuovi orari di lavoro incompatibili con la cura dei figli. La multinazionale svedese ha contestato la ricostruzione dei fatti precisando che non è solo un algoritmo a decidere i turni di lavoro di migliaia di dipendenti. Sta di fatto che senza questo legame solidale forte, che si è espresso con manifestazioni pubbliche, il fattore umano sarebbe scomparso nell’indifferenza e nella solitudine.
Forse a partire da questo sguardo comune può nascere un dialogo aperto su cause e rimedi delle crescenti diseguaglianze come questione da porre al centro della prossima competizione elettorale. Come ha detto il già citato De Paolo in un’intervista a Affari Italiani, fermarsi ai bonus assomiglia molto ad una presa in giro.
Per approfondire il dibattito su cause della povertà e i rimedi possibili cfr il dossier Povertà di Città Nuova