No al lavoro nero, per coltivare la terra con dignità

Sfruttamento del territorio e delle persone, inquinamento ambientale e truffe minacciano il lavoro di chi opera onestamente nella filiera agroalimentare. Ma c'è chi va controcorrente, nonostante le difficoltà, come l'esperienza del marchio "Sfruttazero", etichetta solidale nata dall’impegno a fianco dei braccianti. Intervista ad Angelo Cleopazzo di "Diritti al Sud"
Diritti a sud

Olio, pomodoro, arance, latte… La filiera italiana dell’agroalimentare e dei prodotti da allevamento sembrerebbe sotto attacco. Le normative europee sono sempre più contestate da parte delle associazioni di coltivatori e allevatori che vedono i loro iscritti esposti a rischi sempre più insostenibili. Le notizie del settore sono un bollettino di guerra. Nel 2015 è aumentato del 650 per cento il volume del concentrato di pomodoro importato dalla Cina (70 milioni di chili) e rilavorato in Italia per ottenere il marchio nazionale di confezionamento. Nello stesso anno, sempre grazie alle normative di Strasburgo, sono aumentate del 481 per cento le importazioni dell’olio di oliva della Tunisia per un totale di oltre 90 milioni di chili. La Coldiretti ha radunato il 10 marzo a Catania migliaia di coltivatori per denunciare la probabile scomparsa della produzione italiana degli agrumi, per l’incapacità di reggere la competizione al ribasso.

 

In questo quadro non può che crescere la piaga del caporalato e del lavoro nero. A febbraio è andata distrutta da un rogo la baraccopoli dei lavoratori immigrati a Rignano Garganico, nel foggiano, alla vigilia dello sgombero deciso per motivi umanitari.

 

Proprio dalla Puglia arriva, invece, un segnale di riscatto civile non solo per l’azione dei volontari impegnati nell’accoglienza e sostegno dei lavoratori sfruttati e malpagati. A Nardò, Lecce, fianco a fianco e in ottimi rapporti con l’importante presidio della Caritas, lavora, da tempo, il collettivo “Diritti a Sud” che, con altre simili realtà del Meridione, ha dato vita all’etichetta Sfruttazero della passata di pomodoro, citata nel numero 3/2016 della rivista Città Nuova.

 

Abbiamo rivolto alcune domande ad Angelo Cleopazzo, portavoce di “Diritti al Sud”, appena tornato da una parrocchia del posto che lo ha invitato a parlare ai giovani di questa originale esperienza.

 

Quale è il senso della campagna “Sfruttazero”?
«Vogliamo dimostrare che è possibile sviluppare una filiera etica per produrre in agricoltura (ma non solo). Il pomodoro nel corso degli ultimi anni è diventato purtroppo un simbolo di sfruttamento. Il senso della campagna è quella di far rispettare i diritti politici, sindacali, legali, di tutti i lavoratori che si accingono a partecipare a questa impresa».

 

Vi concentrate dunque solo sui lavoratori? 
«Non solo. Siamo per l’agricoltura contadina perché più sostenibile dell'agro-industria. I prodotti promossi sotto il marchio “Sfruttazero” devono essere, perciò, di alta qualità perché coltivati nel rispetto integrale della nostra terra, tanto avvelenata, invece, dalla chimica intensiva».

 

Come si sostiene questo tipo di produzione?
«Abbiamo promosso un crowdfunding (raccolta pubblica di denaro tramite piattaforma informatica, ndr) che ha avuto un certo successo tanto da poter anche creare una "cassa di mutuo soccorso", condivisa da tutte e tre le realtà del Mezzogiorno ("Solidaria-netzanet", "Diritti a sud" e "Funky tomato"), per sostenere le rivendicazioni dei migranti».

 

In che modo? Si possono fare degli esempi concreti?
«Il primo intervento è stato quello di sostenere con una donazione la vedova di Mohamed, il 47enne sudanese morto l’estate scorsa mentre lavorava qui a Nardò con quaranta gradi di temperatura. Il secondo intervento è stato quello di donare un generatore di corrente elettrica alla comunità di migranti che a Foggia da due anni occupa una ex fabbrica del latte. Un sostegno concreto per una trentina di "invisibili" che non hanno nulla e vivono in questo rudere fatiscente».

 

Belle esperienze, ma come si fa a rompere, secondo voi, il meccanismo di sfruttamento nella filiera agricola?
«Lo sfruttamento riguarda il suolo, l’aria e l’acqua, i lavoratori e anche i consumatori. Oltre a rispettare le leggi sul lavoro, occorre abbandonare il modello intensivo di produzione privilegiando la distribuzione al più basso chilometraggio possibile. Bisogna riformare il ruolo delle istituzioni, dei sindacati, del collocamento al lavoro e sviluppare una seria critica verso le grandi reti commerciali che finiscono per imporre dall’alto dei prezzi che nascondono lo sfruttamento, di fatto, della forza lavoro impiegata. Più che essere contro qualcosa siamo però a favore della costruzione di un percorso alternativo di mercato, dalla logistica alla distribuzione, dall’autoproduzione ai sistemi di trasporti. Insomma vorremmo costruire un'economia solidale».

 

In cosa consiste questo tipo di economia?
«Nella nostra esperienza assistiamo a una frammentazione dei lavoratori, a un "gioco" che prova a mettere le fasce deboli della popolazione le une contro le altre. Noi vogliamo fare la strada opposta, cioè unire quelle fasce (precari, disoccupati e lavoratori migranti) e rivendicare assieme diritti e libertà negate. Avvertiamo le istituzioni lontane dalla fragilità dei soggetti in carne e ossa ai quali noi facciamo riferimento. La nostra idea è quella di pensare a una comunità nuova dove disoccupati, precari, migranti, lavoratori, abbiano la possibilità di innescare processi che vadano a incidere in tutte le sfere: sociale, politico ed economico».

 

Avete dei compagni di strada in questo cammino?
«Certo! Esiste come un sottobosco fatto di associazioni, movimenti, collettivi che imbastiscono concretamente sui territori pratiche politiche innovative di socialità, di solidarietà e di mutualismo anche conflittuale, di nuova economia. Penso alla fabbrica recuperata di Milano "Ri-Maflow", oppure "S.O.S Rosarno", oppure "Mondeggi fattoria senza padroni" di Firenze o "Terre di Palike" nella valle del Simeto in Sicilia o lo spazio sociale di "Communia" a Roma e tante tante altre. C'è tanto da fare e tanto è anche l' entusiasmo. Si tratta di creare un corpo unico fra tutte queste realtà di autoproduzione solidale ed etica, che nei propri territori sono dei veri presidi di libertà. È un compito di grande complessità ma che è già nell'ordine delle cose».

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