Nato, una strategia di riarmo per l’Europa

Italia in prima fila nel sostenere il nuovo concetto strategico di difesa della Nato approvato nel vertice di Madrid con lo sguardo rivolto alla guerra in Ucraina e alla sfida sistemica con la Cina. «Non c’è pericolo di escalation – dice Draghi – ma bisogna essere pronti»
(AP Photo/Bernat Armangue)

Il vertice dell’Alleanza Atlantica si è riunito a Madrid dal 28 al 30 giugno per approvare un documento sintetico di 11 pagine sul “Concetto strategico della Nato” che definisce «le sfide alla sicurezza che l’Alleanza deve affrontare e i compiti politici e militari che la Nato svolgerà per affrontarle» fino al 2030.

Anche se preceduto, in Italia, da un dibattito pubblico praticamente assente, quanto ratificato nella capitale spagnola è destinato ad incidere profondamente sul futuro immediato del nostro continente e non solo. È previsto, infatti, un forte incremento della presenza militare statunitense in Europa, con il rafforzamento della potenza bellica dei Paesi baltici a ridosso della Federazione Russa e il consenso all’ingresso nell’Alleanza di due Paesi, Svezia e Finlandia, che hanno fatto finora della loro neutralità un punto di forza della capacità negoziale tra i due blocchi.

NATO summit Madrid, (AP Photo/Manu Fernandez)

Alla vigilia dell’incontro di Madrid la Turchia ha dato il proprio assenso, necessario per la regola dell’unanimità in sede Nato, all’entrata dei due nuovi membri in cambio della consegna ad Ankara dei rifugiati curdi considerati terroristi da Erdogan. Uno scambio che getta un’ombra inquietante sull’intera vicenda (cfr articolo di Michele Zanzucchi).

Sullo sfondo si pone in maniera ormai sempre più esplicita, la vera sfida geopolitica del XXI° secolo che si gioca tra Cina e Usa, tanto che per la prima volta sono stati invitati al vertice Nato i rappresentanti di Nuova Zelanda, Giappone, Corea del Sud e Australia.

I tempi stanno cambiando velocemente. Emblematiche le parole di Mario Draghi secondo il quale «non c’è rischio di un’escalation, ma bisogna essere pronti». Per questo motivo il presidente del consiglio ha confermato alla stampa che l’Italia è presente nel «pattugliamento aereo dei Paesi baltici già da vari mesi, mentre in Bulgaria ed Ungheria verranno mandati circa 2.000 soldati e altri 8.000 sono di stanza in Italia, pronti in caso fosse necessario».

Complessivamente l’aumento delle forze di reazione rapida della Nato passerà da 40.000 a 300.000 unità pronte ad intervenire.

U.S. Army Poland from Fort Bragg (AP Photo/Nathan Posner, File)

Da parte sua, il presidente statunitense Joe Biden ha annunciato il «dislocamento di difese aeree aggiuntive» e di «altre capacità» in Germania e Italia nel quadro di un’operazione complessiva che vede, ad esempio, «due squadroni» aggiuntivi di caccia bombardieri F-35 nel Regno Unito (velivoli, è bene ricordare, predisposti per l’uso di armi nucleari).

È stato perciò irrilevante, una volta rese note tali decisioni, il fatto che Draghi abbia lasciato prima del termine il vertice di Madrid per ragioni legate alla stabilità del suo governo che pure gode, in teoria, di una larghissima maggioranza.

Al più, una caduta di immagine per l’Italia che è chiamata sempre a dare prova della propria affidabilità nei contesti internazionali. Ad ogni modo, la crisi dell’esecutivo, se mai avverrà, non sarà fondata su eventuali obiezioni al “nuovo concetto strategico di difesa” che i tecnici hanno predisposto, da tempo, in base ai lavori della commissione guidata dal segretario generale della Nato, il laburista norvegese Jens Stoltenberg.

Tra gli esperti di tale gruppo di lavoro c’è anche l’italiana Marta Dassù, direttrice di Aspenia, figura chiave dell’Aspen Institute Italia, membro della Commissione Trilaterale, con una lunga esperienza nella politica internazionale che parte dal Cespi, centro studi del Pci fondato da Enrico Berlinguer, per arrivare alla carica di viceministro degli esteri nei governi Monti e Letta (2011-2014) e a quella di consigliere di amministrazione di Finmeccanica (ora Leonardo) durante il governo Renzi.

Dal 1998 al 2001 la Dassù è stata, anche, consigliere per la politica estera del presidente del Consiglio dei ministri nei governi D’Alema I e D’Alema II e nel governo Amato II. Mentre dal 2006-2008 ha guidato il “gruppo di riflessione strategica” del ministero degli Affari Esteri.

Un lungo curriculum da tenere bene a mente per capire l’incidenza dei suoi contributi pubblicati regolarmente su La Repubblica. Ad esempio, nell’immediatezza del dopo 24 febbraio, giorno dell’invasione russa dell’Ucraina, la direttrice di Aspenia si è detta sicura, grazie all’effetto delle sanzioni economiche, della vittoria occidentale nei tempi supplementari contro la strategia di Putin. Ora, descrivendo il nuovo concetto strategico della Nato afferma che si torna, pur in un mondo che non è più segnato dallo scontro tra due superpotenze (Usa e Urss) «alla logica essenziale della vecchia guerra fredda: la capacità di difendere l’insieme del territorio alleato, dissuadendo attacchi convenzionali nei Paesi più esposti (Repubbliche Baltiche e fianco Est) e rafforzando la deterrenza nucleare».

Si comprende quindi perché, in ragione dell’incremento della deterrenza nucleare,  l’Italia abbia “disertato”, anche come semplice Paese osservatore, l’incontro svoltosi a Vienna, dal 18 al 23 giugno, tra gli stati che hanno sottoscritto il trattato Onu del 2017 che mette al bando le armi nucleari.

Il vertice Nato ha preso in esame anche il pericolo che viene dal fronte Sud e cioè dall’Africa e Medio Oriente attraversato da molte sfide che la Dassù mette così in fila: «controllo delle aree di crisi contese fra Russia e Turchia (Libia, Siria), futuro del Sahel, sicurezza energetica e alimentare, terrorismo, traffici illegali».  Parliamo di un’area a noi prossima e che infatti costituisce l’oggetto di interesse della Fondazione Med Or promossa dalla società Leonardo e affidata all’ex ministro dem Marco Minniti. La sigla “Med Or” sta per Paesi dell’area del Mediterraneo allargato fino al Sahel, Corno d’Africa e Mar Rosso (“Med”) e del Medio ed Estremo Oriente (“Or”).

Jens Stoltenberg, Mario Draghi e Pedro Sánchez al vertice della NATO a Madrid, (AP Photo/Bernat Armangue)

Emerge da questi scenari ancora più centrale  il nodo politico sull’esistenza o meno di una politica di difesa europea distinta e autonoma da quella della Nato. Questione niente affatto teorica perché, ad esempio, una riorganizzazione della difesa dei Paesi Ue comporterebbe un ridimensionamento delle spese complessive e il superamento della concorrenza tra le industrie europee di armi ora in competizione tra loro nella conquista di nuovi clienti (esemplare quella esistente tra Francia e Italia in Egitto).

Il concetto di politica di difesa europea è discriminante nella ricerca del nuovo segretario generale della Nato che l’anno prossimo andrà a sostituire Stoltenberg. Come nota ad esempio Stefano Feltri, direttore del quotidiano Domani, l’ex alto rappresentante per la politica estera della Ue dal 2014 al 2019, Federica Mogherini, anche lei tra l’altro di provenienza Pd, non sarebbe idonea sostanzialmente per gli Usa perché fautrice di una politica di sicurezza Ue che tende «a fare meno della Nato».

È, invece, il garante di una diversa e opposta visione l’attuale sottosegretario alla presidenza del consiglio, il dem Vincenzo Amendola che, in un lungo intervento nello speciale del Domani dedicato al nuovo concetto strategico deciso a Madrid, afferma senza mezzi termini, citando il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, sempre del Pd, che «il rafforzamento della difesa europea va inteso come consolidamento del “pilastro europeo” della Nato».

Amendola, che esprime la linea del governo Draghi, parla di «naturale sinergia tra Ue e Nato» ricordando il riconoscimento da parte di Biden del «contributo che una difesa europea più forte può dare alla sicurezza transatlantica e globale». Un legame che è stato riaffermato con la piena sintonia nei confronti della guerra in Ucraina «con la decisione senza precedenti della Ue di fornire supporto anche militare a Kiev utilizzando i fondi dello strumento europeo di pace».

Se, come afferma la Dassù «i sondaggi confermano che le opinioni pubbliche di Europa e Stati Uniti sono favorevoli alla Nato», ne discende che non ci sarà, in Italia, una forte opposizione nei confronti dell’aumento delle spese militari, in termini di uomini e armamenti, tra l’altro già annunciata da Draghi nel suo intervento di inizio mandato.

Uno dei punti di forza dell’Italia nel nuovo contesto internazionale, secondo il direttore de Il Foglio Claudio Cerasa, consisterebbe nel fatto che «nessun Paese europeo ha un numero così elevato di cattolici posti in posizioni strategiche nelle istituzioni (Guerini, Mattarella e Draghi) pronti a non assecondare sulla guerra in Ucraina la linea suggerita dalla Chiesa di papa Francesco».

Ed effettivamente, per non essere velleitari, denunciare, come hanno fatto recentemente i vescovi italiani, «le scelte assurde di investire in armi anziché in agricoltura», deve tradursi laicamente in una linea di politica estera concreta, diversa da quella che impone la necessità del riarmo. Ma non sembra che ci sia, finora, all’orizzonte un soggetto in grado di prendere sul serio tale sfida.

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