L’Italia aumenta le spese militari a 104 milioni al giorno
L’aumento delle spese militari in Italia è una chiara decisione strategica annunciata dal governo di Mario Draghi prima dello scoppio della guerra in Ucraina.
Lo afferma con trasparente linearità il testo dell’ordine del giorno (odg) approvato a larga maggioranza (391 contro 19 sui 421 presenti) il 16 marzo dalla Camera per impegnare il governo a aumentare il livello di tale spesa al 2% del Pil, come chiesto con insistenza da tempo dagli Usa e quindi dalla Nato.
Nell’odg presentato dalla Lega si parte dalla conferenza stampa del 29 settembre 2021, sulla Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza, in cui il presidente del Consiglio Draghi ha affermato che «ci dobbiamo dotare di una difesa molto più significativa e bisognerà spendere molto di più di quanto fatto finora». Concetto ribadito, usando le stesse parole, nello storico discorso alle Camere del primo marzo in cui Draghi ha affermato che «la minaccia portata oggi dalla Russia è una spinta a investire nella difesa più di quanto abbiamo mai fatto finora».
Le tragiche notizie dal fronte ucraino hanno probabilmente permesso di raggiungere la quasi unanimità dei consensi, ma l’adesione dei partiti presenti in Parlamento sul riarmo del nostro Paese è ormai acquisita da tempo. Resta l’opposizione di una parte minoritaria di Leu e dei dissidenti ex 5Stelle radunati in diverse sigle.
È emblematico in tal senso quanto emerso nell’incontro su “La Difesa in Europa dopo l’invasione russa dell’Ucraina” promosso l’11 marzo dall’Istituto affari internazionali, importante pensatoio (think tank) molto ascoltato dai decisori politici, dove è intervenuto anche il sottosegretario alla Difesa, Giorgio Mulè, esponente di Forza Italia che, da esperto di comunicazione, è stato direttore del periodico Panorama: ha detto che sul tema armamenti si registra un cambio di paradigma verso un certo tipo di narrazione incline a mettere a confronto le spese necessarie per acquisire un cacciabombardiere F35 con quelle da destinare alla costruzione di ospedali e asili.
Il riferimento esplicito di Mulè è alla campagna delle associazioni che ogni anno redigono il rapporto Sbilanciamoci sulle proposte alternative di bilancio pubblico (numeri alla mano, con il costo di un cacciabombardiere F35 si potrebbero costruire ad esempio 387 asili o 21 treni per pendolari).
Sulla stessa linea di Mulè si pone un saggista liberal di successo come Federico Rampini che nelle sue numerose conferenze ricorda che non esistono “potenze erbivore” e cioè che per poter esercitare un ruolo di peso nella politica internazionale occorre investire in armi pur essendo consapevoli delle altre destinazioni possibili dei fondi pubblici.
Come ribadisce Mulè «le spese militari non devono più essere percepite come una spesa inutile ma come investimenti fondamentali per poter proteggere la sovranità dello stato». Una linea che l’Italia sta portando avanti con decisione già da molto tempo come sottolinea il sottosegretario alla Difesa per ribadire l’impegno del ministero guidato dal dem Lorenzo Guerini: «possiamo osservare, tra il 2019 e il 2021, una spesa che, in termini di investimenti, è cresciuta addirittura del 75% essendo oggi intorno agli 8,27 miliardi. Una spesa che nel suo complessivo oggi somma 25,8 miliardi di euro, in crescita del 3/4% sul 2021, ma addirittura di quasi il 20% rispetto al 2019. Allora la consapevolezza c’è ma bisogna fare quel passaggio in più per portare i 25,8 miliardi intorno ai 38 miliardi che rappresentano il 2% del Pil, come da accordi» già presi a livello della Nato.
Una richiesta insistente da parte Usa che non vogliono caricarsi da soli del peso economico dell’Alleanza atlantica. Qualcuno ricorderà che nel suo viaggio in Italia del 2016 l’allora presidente dem Obama pronunciò una frase in italiano dal tono perentorio “patti chiari amicizia lunga”, molto diverso dal solito ritornello bonario di “pasta, pizza e mandolino”.
Secondo i calcoli molto dettagliati dell’Osservatorio Milex, l’entrata a regime del nuove volume di spese militari comporta il passaggio dagli attuali 68 milioni di euro a 104 milioni di spesa giornaliera. Una decisione evidentemente considerata indispensabile in un Paese dove come alcune regioni non dispongono, ad esempio, di alcun presidio di rianimazione neonatale.
Un’indicazione della scala di priorità del nostro sistema industriale lo abbiamo avuto durante la pandemia quando il fermo produttivo è stato imposto precauzionalmente a gran parte dell’attività civili ma non quelle legate alla filiera delle armi.
L’aumento della spesa militare, e quindi in armi, non è quindi una novità ma il consolidamento di una linea strategica che il governo Draghi ha solo reso più esplicito.
L’aggressività della Russia è un grande fattore di spinta a tale scelta, ma se osserviamo i dati di spesa globale certificati del 2020 la classifica vede in testa gli Usa con 778 miliardi di dollari, seguiti da Cina(252), India(72,9) e Russia (61,7) seguita dalla Gran Bretagna (58,4) e dall’Arabia Saudita (57,5) e altri Paesi della sfera occidentale che, messi assieme, sopravanzano di molto la Federazione russa.
Eppure il messaggio che si impone nell’immaginazione collettiva dopo l’invasione russa dell’Ucraina è quello esplicitato da Michele Nones dello Iai: «Il mondo che abbiamo conosciuto negli scorsi 77 anni è finito. È finito insieme alle illusioni di chi riteneva che lo fossero anche le guerre convenzionali o perlomeno quelle combattute in Europa». Una motivazione in più per arrivare all’approvazione del concetto strategico di difesa da parte dell’assemblea dei 30 Paesi della Nato in programma a fine giugno a Madrid.
Bisogna poi tener presente una tesi decisiva ribadita in tema di armamenti da Nones e cioè che «nessun grande sistema di difesa trova sbocco sufficiente sul mercato continentale» per cui «le esportazioni restano indispensabili».
Un argomento usato per criticare la scelta operata dal governo Conte di bloccare l’esportazione di bombe della Rwm Italia verso Arabia Saudita e Emirati Arabi. Secondo l’autorevole esperto dell’Istituto fondato a suo tempo da Altiero Spinelli, i decisori europei non possono più «trastullarsi con l’ipotesi di penalizzare l’industria della difesa con una nuova forma di ostracismo etico che la assocerebbe alle attività più negative per la salute, per l’ambiente e per la pace internazionale».
La decisione annunciata del governo tedesco a guida socialdemocratica di aumentare la spesa militare di 100 miliardi di euro va in questo senso.
In Francia Macron ha presentato il proprio programma elettorale in vista delle imminenti elezioni presidenziali di aprile ribadendo che il suo Paese, con il quale l’Itala ha stretto nel 2021 l’importante Trattato del Quirinale, come riporta l’Ansa del 17 marzo «deve potenziare il suo esercito per essere pronta a rispondere ad “una guerra di alta intensità che può tornare sul nostro continente”» disponendo anche il raddoppio del numero dei riservisti, pronti ad essere richiamati, tra i militari in congedo.
Davanti a queste scelte che si vanno imponendo, bisogna capire il senso della costruzione di una difesa europea che dovrebbe essere sostitutiva e non aggiuntiva a quella della Nato, con conseguenti risparmi in termini di spesa tra sistemi militari e industriali non più in concorrenza tra loro nella ricerca dei mercati per l’esportazione dei loro prodotti verso i grandi acquirenti come Arabia Saudita ed Egitto.
Un tema di merito che solo l’impegno della società civile può far emergere nel dibattito pubblico. In Parlamento una delle poche voci contraria all’’invio di armi in Ucraina è stato il deputato Pino Cabras, ex M5S ora fondatore del gruppo “L’alternativa c’è”, che tra l’altro ha criticato «la postura che è stata scelta sia dall’Italia sia dall’Unione europea, che doveva essere un’istituzione di pace e sta diventando, invece, un’istituzione bellica, e questa mutazione avviene sotto i nostri occhi con una rapidità sconcertante e con effetti che possono ricadere sulle sorti della pace dell’intero continente e del mondo intero».