Landini. Oltre la solitudine dei lavoratori
Abbiamo intervistato Maurizio Landini, segretario generale dei metalmeccanici della Cgil, che interverrà sabato mattina, 26 settembre, nel laboratorio di Loppiano Lab su “L’impegno per la giustizia sociale nelle nostre periferie esistenziali”. Il leader della Fiom verrà a raccontare, assieme a don Giuseppe Gambardella, il senso dell’esperienza del fondo “Legami di solidarietà” promosso a Pomigliano D’Arco(Napoli) dal suo sindacato assieme all’associazione Libera e alla parrocchia san Felice in Pincis che esprime quella Chiesa che, come dice papa Francesco, “esce per le strade” senza aggrapparsi a “comodità e sicurezze” nella “santa inquietudine” di andare incontro ai “nostri fratelli che vivono senza un orizzonte di senso e di vita”.
Come si può andare oltre quella paura che rende impossibile il senso originario dell’esperienza del sindacato (“insieme per la giustizia”)?
«Sulla difficoltà dell'attuale situazione sindacale e su ciò che ci attende potrei rispondere semplicemente ricordando che l'unica battaglia davvero persa è quella che non viene combattuta. In realtà credo che i giochi siano tutt'altro che fatti; anche perché le difficoltà odierne del sindacato – a partire da quelle sull'essere coerenti con il proprio mandato e il significato originario del termine – dipendono certamente da scelte e anche errori soggettivi, ma sono più in generale l'esito di trasformazione globali della società».
Quale tipo di mutamento sta avvenendo?
«Siamo nel pieno del cambiamento dell'economia, del lavoro e dei rapporti tra le classi che interessano tutti gli attori sociali e tutte le cosiddette “organizzazioni intermedie”, dai partiti fino alle associazioni padronali. Le stesse istituzioni democratiche italiane ed europee devono fare i conti con trasformazioni che mettono in crisi il concetto stesso di rappresentanza. Questo per dire che se il sindacato non gode di ottima salute, la malattia che lo ha colpito è la stessa di tanti altri organismi, comprese le nostre tradizionali controparti».
Cosa spinge la Fiom a sperare in un rovesciamento della situazione? Non le sembra a volte di guidare un’ultima strenua resistenza di una battaglia già persa, visto anche la divisione con le altre sigle sindacali che paventa una rottura peggiore di quella nei confronti dei datori di lavoro?
«Come già detto l'unica battaglia davvero persa è quella che non viene combattuta. Nello scenario che ho descritto Si collocano le scelte di ciascuna organizzazione sindacale. Quelle della Fiom vogliono proprio ridare energia e pratiche ai principi originari del sindacalismo e dell'associazionismo popolare, quello che quasi due secoli fa, misurandosi con la condizione insopportabile che vivevano milioni di persone private di tutto – a partire dalla possibilità di decidere sul valore, sui tempi e sulle modalità del proprio lavoro – si coalizzavano in forme mutualistiche, solidali e collettive per cambiare quella condizione e dare dignità alle loro esistenze».
Non è un riferimento troppo slegato con il presente?
«Tutt’altro! A distanza di tanto tempo, una regressione inaspettata e violenta, frutto della “rivoluzione dall’alto” della globalizzazione liberista ha riportato le condizioni di milioni di persone a uno stato di subalternità che mette in discussione e mina la loro dignità e i diritti conquistati nel percorso iniziato due secoli prima. E tutto questo avviene in un mondo in cui nessuno può considerarsi indenne da ciò che accade al suo fianco come a migliaia di chilometri di distanza, in cui tutti siamo chiamati a misurarci con problemi complessi e trasformazioni epocali, come testimoniano le migrazioni e le dinamiche demografiche di questi anni. Perciò servono valori forti e risposte coraggiose. Le sole che possono evitare di farci schiacciare dalle paure che sorgono di fronte a questi fenomeni così grandi».