Ricordando la strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013
Poco prima dell’alba, il 3 ottobre di 5 anni fa, un’imbarcazione proveniente dalla costa libica, con a bordo quasi 550 migranti per lo più eritrei, si capovolse al largo della costa di Lampedusa. Pescatori e soccorritori recuperarono 155 sopravvissuti, 368 i cadaveri.
Le immagini dell’allineamento di centinaia di bare in un hangar all’aeroporto fecero il giro del mondo. A questo proposito vorrei condividere una riflessione sulla “diversità”. Infatti, la questione migratoria è innanzitutto e soprattutto una sfida culturale che non può essere assolutamente disattesa. D’altronde, è la Storia stessa dell’homo sapiens a testimoniarlo.
Fa parte della natura di ogni gruppo sociale – grande o ristretto che sia – la tendenza a scegliere al proprio interno qualcuno cui possa essere attribuita – enfatizzando certi tratti fisiognomici legati alla religione, alla condizione sociale, al colore della pelle, allo stato di salute, o a costumanze di vario genere – la qualifica di “diverso”.
Questo aggettivo e sostantivo della nostra lingua ha nel proprio dna etimologico due verbi latini “divertere” (deviare) e vertere (volgere). Potremmo pertanto dire che il diverso è colui che è volto in altra direzione, quindi alieno, lontano.
È dunque evidente che non si tratta di un termine neutro, anzi dichiaratamente esclusivo. Esso, infatti, si riferisce ad una qualsivoglia persona o gruppo da cui guardarsi o su cui infierire. Non esiste un “diverso” predefinito, codificato una volta per tutte: ogni uomo – tutti coloro che si definiscono “prossimo” – può, all’occorrenza configurarsi come totalmente altro rispetto al sentire della comunità. Nella stessa letteratura dantesca, il diverso non è soltanto dissimile, distinto, ma è soprattutto strano, insolito: “lamenti saettaron me diversi (Inf. XXIX, 43), ma anche orribile, mostruoso: “Cerbero, fiera crudele e diversa” (Inf. VI, 13).
La diversità, dunque, ha da sempre rappresentato una costante per l’umanità, quasi intimorita da tutto ciò che esula dalle proprie conoscenze, dalle proprie certezze e abitudini.
Gli scenari sono sempre stati molteplici e variegati: dalle persecuzioni contro i cristiani nei primi secoli, alle vittime della santa inquisizione, per non parlare, oggi, della mobilità umana, cioè di quella consistente porzione di umanità dolente generata dalla globalizzazione dell’indifferenza. Poco importa che si tratti di migranti economici o di richiedenti asilo, la loro diversità è percepita sempre e comunque come una minaccia catalizzatrice di qualsiasi disgrazia.
Nella Storia notturna di Carlo Ginzburg, gli ebrei e i lebbrosi vengono accomunati da una medesima sorte, essere perseguitati perché ritenuti artefici di complotti e di turpi macchinazioni ai danni del popolo cristiano.
In epoca medievale ai “diversi” venne imposto di portare un segno di riconoscimento, attraverso il quale individuarli e tenerli lontani. Dice Ginzburg a questo proposito: «Lo stigma cucito sulle vesti esprimeva un’estraneità profonda, anzitutto fisica. I lebbrosi sono ‘fetidi’; gli ebrei ‘puzzano’.I lebbrosi diffondono contagio, gli ebrei contaminano i cibi».
Torturare, perseguitare, emarginare tutto ciò alligna nell’animo umano e costituisce l’ altra faccia del nostro “io”. Eppure, la persona umana è stata creata ad immagine e somiglianza di Dio, anche se poi, nei fatti, è difficile conciliare tale verità con gli ultimi eventi storici, che ci hanno messo a confronto con una sorta di annientamento dell’etica.
Il fatto stesso che dopo l’Olocausto e i tanti stermini degli innocenti perpetrati nelle periferie del mondo, vi sia, ancora oggi, un numero indicibile di uomini e di donne risucchiate nel Mare Mediterraneo, il Mare Nostrum dei latini, ribattezzato da alcuni Monstrum, che dir si voglia, la dice lunga.
Nel Rapporto Ispi (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) dello scorso 1° Ottobre si legge che ogni giorno muoio 8 persone risucchiate dalle acque di quel mare, metafora dell’egoismo europeo (per non parlare, poi, di quei migranti che perdono la vita nei campi di sterminio in Libia).
Molti filosofi ritengono che l’attuale ontologia si risolva nella riduzione dell’ “Altro” al “Medesimo”. Già Hegel, in maniera esemplare, aveva mostrato, nella descrizione dell’Autocoscienza, come l’ “io” si affermi mediante un’attività incessante di annientamento e di riduzione di ogni alterItà.
L’ontologia si presenta oggi per molti come “egologia”, quindi come prevaricazione dell’Altro, del prossimo, come libertà di potenza fondata sulla negazione dell’Altro.
Occorre comunque ricordare che in tempi di aperta persecuzione, dove la mentalità becera e ottusa del “respingimento” e dell’ “annientamento” imperversavano, la fede genuina ha rappresentato uno straordinario antidoto per affermare la dignità della persona umana e l’unità del genere umano. Ad esempio, proprio durante la persecuzione nazista, vi sono state straordinarie testimonianze di solidarietà tra cattolici, protestanti ed ebrei.
Emblematica è stata la figura di Dietrich Bonhoeffer, pastore luterano, arrestato e imprigionato il 5 aprile 1943 nel pieno della sua intensa attività per coltivare e ampliare una fitta rete di relazioni nelle quali si intrecciavano progetti ecumenici e iniziative politiche di resistenza a Hitler.
Bonhoeffer trascorse in carcere gli ultimi due anni della sua vita, vivendo uno spirito ecumenico intriso di fede profonda e serena, priva di bardature confessionali, riconoscendo la grandezza di un Dio che regge il mondo non da un trono, ma da una croce, ed entra in Cristo nella sconfitta e nella morte dell’uomo.
«Soltanto nel pieno ‘essere-in-questo-mondo’ della vita s’impara a credere», scrisse in una toccante missiva del 21 luglio 1944.
Da rilevare, comunque, che lo spirito ecumenico, nel martirio, può trovare il suo radicamento e i suoi interpreti anche in anime dichiaratamente laiche del calibro di Armin Theophil Wegner. Attivista e scrittore tedesco, nel tentativo di tenere desta l’attenzione sulla strage degli armeni affermò temerariamente: «Oso rivendicare il diritto di farvi il quadro delle scene di sofferenza e di terrore che si sono snodate davanti ai miei occhi per circa due anni, che non si potranno mai cancellare dalla mia memoria».
Testimone oculare di quel genocidio lottò per anni, nel tentativo di far riconoscere al governo turco la strage. E cosa dire del suo tentativo disperato di salvare l’anima alla Germania, scrivendo una missiva a Hitler in difesa degli ebrei? Wegner, per il suo coraggio, venne riconosciuto nel memoriale Yad Vashem quale uno dei “Giusti tra le nazioni”.
È pertanto evidente che la prima forma di libertà degli oppressi consista proprio nel garantire a ognuno la sicurezza della propria esistenza. Vi sono state, comunque, nella Storia della Chiesa, situazioni nelle quali il martirio, dal punto di vista strettamente spirituale e testimoniale, ha assunto una valenza ecumenica e dunque communionale.
Il sacrificio della beata suor Leonella Sgorbati, missionaria della Consolata, uccisa il 17 settembre del 2006 da una pallottola, sparata a distanza ravvicinata, da due jihadisti che l’attendevano mentre rientrava a casa dall’ospedale.
Tra lei e gli aggressori cercò di frapporsi Mohamed Mahamud, un musulmano, padre di quattro figli, che la stava scortando in quel brevissimo tragitto. Anch’egli venne ucciso. Non si trattò di una semplice coincidenza: «Per me – disse il suo vescovo, durante i funerali, monsignor Giorgio Bertin – la morte di un’italiana e di un somalo, di una cristiana e di un musulmano, di una donna e di un uomo, ci dice che è possibile vivere insieme, visto che è possibile morire insieme! Per questo il martirio di suor Leonella è un segno di speranza».
Ricordiamo, dunque, col cuore e con la mente, che molti dei migranti che da meridione si spingono verso settentrione, chiedendo ospitalità in Europa provengono proprio da quella terra del Corno d’Africa dove a pagare il prezzo più alto è la stremata popolazione civile.
Un’antica storia mediorientale racconta di un viandante che incontrò un mostro nel deserto. Inizialmente il poveretto ebbe paura, ma riuscendo a scorgerlo più da vicino, s’accorse che era un uomo. Di lì a poco lo distinse ancora meglio e scoprì che dopo tutto non era così brutto come pensava. Alla fine quando lo scorse negli occhi, riconobbe suo fratello.